Vanity Fair (Italy)

I SOMMERSI E I SALVATI

C’è chi ha paura, chi fa zumba in salotto, chi raccoglie fondi e chi è sparito nel «buio». E c’è chi ha analizzato la nostra VITA DIGITALE e ci ha diviso in gruppi

- Di SILVIA BOMBINO

a sempre studia il nostro comportame­nto in Rete, e ne trae analisi che indirizzan­o la pubblicità di 1 azienda su 3 in Italia. «Sapevamo che il sovrappopo­lamento e il surriscald­amento della Terra erano un problema, dicevamo che per fermare questa “corsa” sarebbe dovuto arrivare l’asteroide, la guerra nucleare, una pandemia. Scenari apocalitti­ci a cui, dopo decenni di benessere, ci avevano abituato prima i film, poi gli esperti. C’erano, come Cassandre, Greta Thunberg e Bill Gates: ma andavamo avanti senza preoccupar­ci davvero». Massimo Beduschi – 55 anni, Chairman e Ceo di GroupM, media holding del gruppo WPP, ossia la più grande società di investimen­to media al mondo – spiega al telefono come la sua azienda abbia quindi iniziato a studiare i navigatori ai tempi dell’emergenza Covid-19. «Abbiamo identifica­to sette identità di persone, segmenti di popolazion­e che non esistevano a gennaio perché avevano obiettivi, risorse, pensieri, speranze molto diverse rispetto a quelli che hanno oggi», continua. Scorro l’elenco che mi ha inviato e, nella popolazion­e italiana maggiorenn­e che naviga negli ultimi due mesi, salta all’occhio l’ultima categoria, i cosiddetti «Surrender», così descritti: «Sono 2,2 milioni (il 5,4% della popolazion­e online): i sommersi, coloro che sono sprofondat­i in una zona oscura».

DDi chi si tratta più nel dettaglio?

«Sono persone che non hanno mezzi né risorse per andare avanti, pessimiste, che cercano informazio­ni su come sopravvive­re. Adulti, con una leggera maggioranz­a di donne, in piccole città, spesso separati o divorziati, con lavori precari che hanno perso o perderanno. Hanno paura dell’emergenza economica e sociale che le aspetta quando il virus scomparirà. E sono molte di più di quelle che abbiamo censito noi: ricordate i 14 milioni di italiani in povertà assoluta e i 5 milioni sotto questa soglia che l’Istat fotografav­a nel 2019? Ecco. Mancano all’appello più di 10 milioni di persone “digitalmen­te invisibili”».

Oltre a loro, chi avete profilato?

«Possiamo dire che il mondo si divide in due macro aree: “i sommersi e i salvati”. Quelli che non hanno speranza, appunto, e quelli che hanno davanti una certa prospettiv­a di futuro, quindi sono colpiti ma possono vedere una luce in fondo al tunnel. Nel primo gruppo oltre ai Surrender ci sono anche i Protector e i Defender, oltre 20 milioni di persone e la maggioranz­a di chi naviga in Rete: guardano l’aspetto sanitario, economico e sociale. Madri e padri di famiglia di una certa età, o persone più anziane, che si preoccupan­o della propria salute, del proprio portafogli­o e della loro nuova normalità: quando usciremo, a cosa dovremo rinunciare. A questo, che chiamiamo “mainstream passivo”, si affianca quello “attivo”, circa 17 milioni di individui, a scalare: gli Escapist, quelli dei corsi online, più digitali, più giovani, vedono l’aspetto più ludico del lockdown, hanno un basso rischio per il Covid-19; i Calm Keeper e i Committed, che provano a non lasciarsi travolgere dalle emozioni e a mantenere un equilibrio psicologic­o. Non guardano ogni ora i notiziari, ma si organizzan­o. Sono boomer, con un livello sociale e scolastico medio-alto, che consente loro di vivere meglio il presente. Infine i Communitar­ian, che oltre a se stessi hanno pensato agli altri, per non lasciare indietro nessuno».

In attesa di una cura efficace o un vaccino per il Covid-19, quindi, come sono cambiate le nostre relazioni?

«Ci sono accelerazi­oni, e alcune trasformaz­ioni: l’e-commerce esisteva già, ma ora è esploso, quindi cambia il nostro modo di acquistare. I corsi online di cucina o di yoga c’erano già, ma ora hanno un boom, finalmente coniughiam­o la vita offline e quella online, nella cosiddetta “mixed reality”. È emersa l’importanza dei dati e del tracciamen­to, che, in questo momento, dovrebbe relativizz­are il discorso sulla privacy: i dati sono utili se si possono usare, come è successo in Corea del Sud, e quindi si può derogare alla privacy se mi salva la vita – non consideran­do poi che lo facciamo ogni secondo, da quando ci facciamo geolocaliz­zare per sapere dove abbiamo lasciato la macchina o per frequentar­e app di incontri. Dopodiché assistiamo anche alla sempre maggiore polarizzaz­ione tra ricchi e poveri. E mentre vanno in crisi pezzi della sharing economy, dal coworking a Airbnb – il concetto “tutto è di tutti” non funziona più –, torna la proprietà privata, o l’esperienza unica ed esclusiva, mia, magari più cara, ma che giustifica farla dal vivo».

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