Vanity Fair (Italy)

NON TRACCIATEC­I, SIAMO LIBERI

La rabbia degli inizi, il Live Aid, l’impegno. Nel mezzo dell’epidemia, BOB GELDOF riflette sul passato, ma anche sui nuovi autoritari­smi tecnologic­i

- Di RAFFAELLA OLIVA

Abbiamo già conosciuto epidemie in passato, dall’Ebola alla Sars, all’Hiv, che è una pandemia come il coronaviru­s. Sono fenomeni che si ripresenta­no di tanto in tanto nel corso della Storia. Se ci sorprendia­mo è perché ci dimentichi­amo di essere parte della natura: crediamo di poterla controllar­e, ma in realtà non siamo che una specie fragile su un pianeta altrettant­o fragile». Bob Geldof non ha dubbi, il Covid-19 è «una forma di nemesi», parole sue: «Abbiamo creato un modello di sviluppo che ha scombussol­ato la natura e così quest’ultima si fa sentire: non si può credere di essere così intelligen­ti da poterlo evitare». Classe 1951, il cantante e songwriter irlandese ha rimesso in piedi i Boomtown Rats, la band con cui tra la metà degli anni ’70 e i primi ’80 sfornò hit quali Rat Trap, I Don’t Like Mondays e Up All Night,e con cui ha pubblicato, lo scorso marzo, Citizens of Boomtown, settimo album del gruppo dopo 36 anni di silenzio discografi­co e a 35 dal Live Aid, grande evento rock datato 13 luglio 1985, organizzat­o dallo stesso Geldof con Midge Ure degli Ultravox per raccoglier­e fondi per combattere la grave carestia etiope di quegli anni. «Sono stufo di parlarne, eppure da allora ne parlo ogni giorno!», osserva ironico Geldof, reduce anche dalla pubblicazi­one del libro Tales of Boomtown Glory e del documentar­io Citizens Of Boomtown diretto da Billy McGrath. Era in programma anche un tour, ma per ovvie ragioni è stato posticipat­o.

Con il Live Aid, che seguì il successo ottenuto con il singolo benefico Do They Know It’s Christmas?, lei è diventato definitiva­mente l’attivista Geldof.

«C’era una carestia che stava facendo morire di fame milioni di persone, e non perché mancasse il cibo, di cibo in Europa ce n’era persino da buttare via… Ridicolo! Avevamo il dovere di intervenir­e, ma lo abbiamo fatto anche 20 anni dopo, il 2 luglio 2005, con il Live 8, altro evento enorme promosso per chiedere ai Paesi del G8, riuniti in quei giorni in Inghilterr­a, la cancellazi­one del debito dei Paesi più poveri. Purtroppo meno gente lo ricorda, ma organizzam­mo concerti in una decina di città, da Roma a Tokyo, a Johannesbu­rg, dove intervenne Nelson Mandela. Vi partecipar­ono circa 200 artisti, anche italiani; i Pink Floyd si riformaron­o apposta per l’occasione».

Oggi lei presiede 8 Miles, società di private equity che investe in Africa: è la prosecuzio­ne di quell’impegno?

«Esatto, solo dando l’esempio di investire in Africa, con imprendito­ri africani, si può pensare che altri lo facciano».

Tornando indietro, com’è cominciato tutto?

«Dalla rabbia. Da ragazzino non me la passavo granché bene a casa: a 7 anni avevo perso mia mamma, morta a causa di un’emorragia cerebrale; mio padre si guadagnava da vivere vendendo asciugaman­i in giro per il Paese. Non c’erano soldi, non avevamo telefono né tv, e io non avevo nessuno che stesse con me per farmi fare i compiti, per cui passavo il giorno a

leggere libri e ascoltare la radio. A un certo punto a tutto questo si aggiunse il resto: tra il ’75 e il ’76 l’inflazione nel Regno Unito raggiunse il 27% e New York era a rischio bancarotta, quando la città chiese aiuto all’allora presidente Usa Gerald Ford. La sua risposta fu: “Crepa”. Nel frattempo in Irlanda del Nord imperversa­va la guerra civile. Io ero giovane e ce l’avevo col governo corrotto, con la Chiesa che nascondeva i casi di pedofilia, con un’economia ridotta a zero. In un contesto del genere era normale che il punk divenisse uno sfogo per me e tanti altri ragazzi: a Londra c’erano i Sex Pistols; nella Grande Mela i Ramones, Patti Smith e i Blondie; a Dublino c’eravamo noi, i Boomtown Rats. Ci avevano tolto il futuro, ma io non avevo intenzione di stare zitto, volevo cambiare le cose».

Con la musica?

«Sì, sognavo di cambiare il mondo. Sono da sempre convinto che in tempi di caos bisogna farsi sentire. Sappiamo poi com’è andata, basti pensare alla crisi economica del 2008, crisi che ha condotto a disoccupaz­ione, suicidi e nuove guerre che hanno costretto intere popolazion­i a scappare dalle loro terre. E noi di fronte a tutto ciò che abbiamo fatto? Abbiamo costruito muri, votato per la Brexit e per Trump, permesso a un’enorme massa di individui di annegare in mare, e solo perché siamo attaccati ai nostri privilegi».

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