L’INCONSOLABILE TRISTEZZA DEGLI ADOLESCENTI
L’arte dell’osservazione, l’ossessione dei film, i piccioni di San Marco, i «sopralluoghi spensierati», le gioie e i disincanti di PAOLO SORRENTINO
«Facciamo un po’ di letteratura, con la miseria della mia bravura». Nessuno mi ama, Paolo Conte.
rologo: «Io credo che sapere troppo di sé stessi sia pericoloso. E anche un po’ inutile. In fondo all’anima, rischi sempre di trovare un essere umano bolso e appesantito. E non ci sono diete per migliorare il sé. Sì, probabilmente avrei avuto bisogno, come tanti, di andare in analisi, ma ho sempre evitato. Non è detto che poi ci trovi chissà quale rivelazione su di te. Potresti anche rischiare di non trovare niente. Allora, meglio risparmiare tempo e denaro e convivere affettuosamente con la propria superficialità che, per nobilitarla, chiamiamo leggerezza. Nietzsche l’aveva capito subito e ha avuto legioni di ascoltatori adoranti. “Crederei solo a un dio che sapesse danzare”, scriveva. E aveva ragione, perché la danza è tutto. È armonia, bellezza, appagamento e salvezza. E questo è Dio. E poi, la modesta, dilettantesca ricerca di me l’ho compiuta attraverso il gioco del cinema. Metti insieme un certo numero di bugie e ottieni una verità. È sufficiente un personaggio, una città , un conflitto, quello che i lavoratori a maglia del cinema chiamano “trama”». La più consistente scoperta che Paolo Sorrentino ha fatto a 13 giorni dal suo primo mezzo secolo è che gli anni, dal 31 maggio 1970, non si sono peritati di avanzare: «I 50 sono arrivati molto velocemente. Finora, tutto sommato, la mia vita è sempre stata piena di novità e sorprese, a volte orrende, a volte meravigliose, e dunque mi sono annoiato poco e festeggiarli non mi pesa e non mi preoccupa. Ti diverti o ti struggi e il tempo fugge. È il rovescio della vita. Ho imparato a essere fatalista e a tollerare che scorra rapido. È stato più faticoso compierne 40: all’epoca mi sembrava di appassire e di perdermi molte cose importanti. Ero più ossessionato dal tema e covavo un sacco di sciocche psicosi relative all’età: mi domandavo se avevo fatto il mestiere giusto, realizzato dei bei film, scelto con cognizione la mia strada. Invecchiando effettivamente si migliora: “si diventa quel che si è” (ancora Nietzsche). Stabilisci le priorità e impari a disinteressarti degli altri, del loro giudizio, delle loro opinioni. Tra i tanti decreti di questi giorni, ne caldeggerei uno che abolisca le opinioni. Diteci o cose alte e false o cose piccole ma vere».
PL’urgenza di fare film era tra le sciocche psicosi dei suoi quarant’anni?
«Ho sempre avuto ansia di fare i film, andavo di fretta, rompevo le palle a chiunque, ma d’altronde questo è l’unico consiglio che ho dato a chi mi chiede come si fa a fare i film: esserne ossessionati».
Oggi?
«Se li faccio sono contento e se non li faccio, sono ugualmente felice. La maggior parte dei film che volevo fare, li ho fatti. E poi il mondo del cinema è peggiorato, tanti si sono incattiviti appresso ai loro fallimenti, ai loro limiti. Mi sento molto più pacificato. Per anni non lo sono stato. Ero irrequieto. Dovevo lavorare a tutti i costi, mettere in scena le mie storie, fare ‘sti benedetti film».
Da cosa nasceva quell’esigenza?
«Da un sentimento di rivalsa. Dalla necessità di dimostrare a un universo indistinto e indefinito di persone che hanno attraversato la mia vita che ce la potevo fare anche io. E meglio di loro. La revanche è una motivazione subdola e potente: ti aiuta a realizzare i tuoi sogni, ma non ti fa godere niente. Appena conclusa un’impresa devi alzare subito il tiro. Guerreggiare è faticoso. Chi fa la guerra, poi la vuole fare sempre. Comunque, c’era un’altra motivazione più “bassa”: fare il cinema può essere divertente. Le sedute di sceneggiatura che facevo da ragazzo con Antonio Capuano erano esaltanti. Con Contarello, ci siamo divertiti moltissimo a delirare sui divani delle sue numerose case da single, incompiute, approssimative e bellissime. I sopralluoghi spensierati in giro per la provincia americana sono stati un incanto. Il primo ciak con Sean Penn, la sensazione non di avere a che fare con un attore, ma con un extraterrestre prestato alla recitazione; le cene, dopo il set, in trasferta, con Toni Servillo, a ridere fino a tardi, sono tutte emozioni indimenticabili».
Perché voleva dimostrare di potercela fare?
«Io sono sempre uno un po’ in ritardo. Quando gli altri parlano, non capisco mai di cosa parlano e chi è il soggetto. E, in maniera pedante, chiedo sempre di tornare indietro e di farmi capire meglio. Questo sfianca e genera sfiducia. Giustamente, pensano e hanno pensato che fossi un po’ cretino. Ma quando arrivi in ritardo sulle cose ci arrivi da solo e questo ti libera dai condizionamenti. È un vantaggio e un rischio allo stesso tempo. Sei indipendente, ma potresti essere anche anacronistico».
E lei si sentiva cretino?
«Bah! Oggi mi sembra che non abbia più nessuna importanza. Comunque, in effetti, in gioventù, ero spesso parte di gruppi di amici abbastanza disadattati, ma la cosa non mi dispiaceva. Quelli che, da ragazzo, ti sembrano in gamba, se leggi di sbieco nei loro sguardi, ti sembrano aggrediti da una tristezza inconsolabile».
«Faccio il regista perché sono ottuso: non è un mestiere per individui spiccatamente intelligenti». La frase è sua.
«Per essere un buon regista serve senso pratico, capacità di organizzazione, un metodo e una comunicativa, vera o falsa che sia non importa. Tutto qui. Dunque, sì, non è necessaria una particolare forma d’intelligenza. Anche se la parola intelligenza è molto generica e indefinibile. Poi serve “una capacità di vedere”. Chi non ce l’ha fa brutti film, il che non toglie che riescano a infinocchiare gli altri, perché anche gli altri, spesso, non hanno capacità di visione o non sanno neanche precisamente cosa sia. La scrittura è un’altra cosa. Richiede, se non si vuole fare solo puro intrattenimento coi colpetti di scena, una moltitudine di sfaccettature, un’immersione nella vita passata e presente, insomma un complesso di coincidenze e talenti che potrebbero corrispondere all’intelligenza. Naturalmente, questa convergenza è rara e dunque si hanno sempre, a tutte le latitudini, molti bravi registi e pochi, capaci scrittori di cinema».
E lei si sente ancora ottuso?
«Non più. Ho imparato a fare il regista negli anni. Conosco i trucchi e le dinamiche. Questo non toglie che, nei momenti