Vanity Fair (Italy)

INSULITUDI­NE

Su una piccola isola, bloccati dalla «Grande Malattia», un uomo con il figlio. Lontani da «Lei» e da tutto, soli, il padre-sceneggiat­ore si ritrova dentro a una storia che aspetta solo di essere scritta. Ma non la scriverà

- Di UMBERTO CONTARELLO

Con la potenza silente del fatto Lei spacca il tempo lineare e ci dice che ha prenotato. Domani prendete il treno per Napoli alle quattro e venti e la nave alle sette e l’aliscafo delle due, e Lui mi guarda come non so dirlo, ma forse si chiama sgomento. Non Le basta: la sentiamo tutti e due, separati dai nostri ridicoli quarantano­ve anni, la miscela perfetta come la tenaglia della cavalleria di Annibale: le scuole domani chiudono e un’aria medicinale trascina le nuvole di Roma, quindi dobbiamo, dobbiamo essere felici di andare una settimana sull’isola che da sempre ci assola, dove a sei mesi Lui ha fatto il primo bagno tra i saraghi.

Ma.

Sono i ma che preparano i ritornelli delle belle canzoni, sono i ma, solo i ma che ci fanno avanzare, camminare, proseguire. Solo i ma, blocchi apparenti, spingono avanti, la direction come la chiama Leonard Bernstein per definire il profilo di una direzione d’orchestra. Lui ha il suo ma: non è pago della trafittura, vuole la lama spietata, vuole vedere l’iceberg che lo aspetta nella notte polare, vuole la caduta inappellab­ile. Ma ci andiamo solo io e Lui, dice? Lei non si alza, si eleva su stessa. Ora può dispiegare la forza di una statua Egea levigata dal meltemi, ecco il carisma divino della decisione giusta, la pienezza dirompente di tre mesi di training funzionale appesa a elastici come quel ragazzo selvaggio di Truffaut, che in accordo ai dodici integrator­i mattutini. Le hanno terremotat­o le endorfine. Sceglie la frase iniziale, indimentic­abile, come Mogol decise «in un mondo che / non ci vuole più». Sillaba la prima parola perché brilli trafitta dal sole calante di Prati che ci addolcisce le cartelle di Equitalia.

«Fi-nal-men-te» scandisce piano, come un arpeggio, finalmente state un po’ tra voi che vi fa bene e io senza il papà lavoro meglio. Guardo Lui e ci vedo due mutuati destinati alle terme convenzion­ate, due duellanti a piedi nudi. Anche Lui, io lo so, sente che in quel fi-nal-men-te c’è il Carso che scivola sotto le rocce e riemerge proprio qui, adesso, a rivendicar­e il sacro e profanato diritto alla libertà individual­e, sancito dalle costituzio­ni materiali dell’Occidente sull’orlo della Grande Malattia che spinge le nuvole.

Sento, o capisco, non lo so se sento o capisco, che devo imitare la serenità lacustre di un ingegnere che non si perde una maratona, e mi esce quella voce che non è la mia, che dice un dai che ci divertiamo che rotola sul tavolo come un paio di dadi senza speranza, in una nottatacci­a di Las Vegas. Sprofondo in questa parola «divertimen­to» come in una forra viscida: vedo l’amuchina, i guanti di lattice che non so infilare, io che perdo le autocertif­icazioni che Lei ha stampato, compilato, allegato, come il solerte funzionari­o asburgico che gode del registro ordinato. Non ci faranno salire in nave, ma Lei avrà una fotocopia che manderà al cellulare di Lui perché io potrei perdere il mio, i settantadu­e amici isolani al molo diranno un ciao lontano e farà freddo cane e ci cacceranno indietro come i Cortés della Grande Malattia che annebbia il cielo di nuvole. In una mongolfier­a di confusione, gonfio la valigia di lane alpine al ritmo dondolante dell’aorta che pulsa in sette ottavi, e questo fatto non va bene.

Chi siamo io e Lui, chi saremo, villeggian­ti in fuga, fuggiaschi in villeggiat­ura, confinati senza dittatura, sbandati da Otto

Settembre, chi saremo in quel nido di pinne e maschere, canne da pesca, costumi e doposole, senza television­e, ad aspettare Lei che riporti i confini del mondo conosciuto?

Ma, e sottolineo ma, mi chiedo: perché una settimana, sette miseri giorni in un’isola che conosciamo come i nostri palati, sono le Orestiadi, invece di una puntata di Gianni e Pinotto?

Siamo soli al ristorante della nave, vuota come tutto il viaggio. Io e Lui, serviti da dodici camerieri appesi al trapezio del licenziame­nto. Finora tra me e Lui c’è stato quel silenzio retrofless­o che hanno solo gli atleti nelle finali olimpiche, quando pensano solo all’ossigeno. Abbiamo addosso quella promiscuit­à ferrosa con i Tir olandesi che sono saliti in nave insieme a noi due, unici passeggeri privi di ogni forma di autonomia veicolare, ma siamo sereni come due notai esigenti. Io aspetto la pasta al pomodoro e lui la Margherita, che nei nostri frequenti traslochi navali ha giudicato la pizza più buona al mondo. Oltre l’oceano di moquette bordeaux sopravvive al fallimento della compagnia il solito cantante, che stasera però non canta, presenta solo i pezzi che canterà in un incerto futuro. Guardo Lui mentre dal cellulare spreme le ultime tracce di connession­e, prima che il Tirreno cali il suo silenzio da lenzuola. Mi sale dentro una specie di pensiero profondo e commosso, come una bolla da palombaro, ma, è sempre ma, il cameriere ci chiede se gradiamo la Sangemini che credevo fallita insieme ai biscotti Mellin. Fa una cosa che ho visto in un programma di Carlo Conti. Solleva la bottiglia a un’altezza immotivata, facendoci immaginare una traiettori­a impossibil­e. La inclina piano fino a modulare un flusso d’acqua settecente­sco, uno zampillo di fontana parigina. Un gesto imperiale, forse è un saluto mi dico, un arrivederc­i che è addio, un inchino finale alla platea che la Grande Malattia ha già evaporato nella paura. Ma perché non è sufficient­e l’esibizione? Perché quest’ostinazion­e a raggiunger­e l’orlo dei calici, senza che trabocchi una goccia? Perché non ascolta il mio sussurrato va bene così grazie? Perché non torna a solcare l’oceano di moquette?

Perché rimane in attesa che qualcosa avvenga. Sento soffiare aria di vendetta, sento che dentro la giacca bianca c’è fragore di guerra. Certo, lui sarà licenziato, ma esige la grande mancia guadagnata in trent’anni di afrore estivo da doccine. Ho capito cosa vuole e lo faccio, con tutta la regalità che ho a disposizio­ne: fletto la schiena fino alla mia S2 che risponde con la fitta della lombalgia. Raccolgo la bocca a becco di pettirosso e la poso sul bordo del calice, pieno, pronto a traboccare come il Vajont. Sono felice perché è questo che voleva: l’inchino dell’ultimo passeggero. Ecco cosa siamo, io e Lui, gli ultimi passeggeri di una compagnia navale fallita dalla Grande Malattia.

Sorveglio un ragù alla bolognese che Lei mi ha dettato come un dispaccio della trincea alle retrovie che se la passano a tressette, Lui è una forma del piumone dentro a quel matrimonia­le dove abbiamo afferrato i nostri sonni, pregando il nostro Dio di non sognare. Piove, come sul Mincio la domenica. Dopo trentadue giorni di simbiosi, decisa non da Atena ma da una decreto della sopravvive­nza che ci impone di sopravvive­re senza Lei, fisso il macinato che si adombra di rosso, come fedele al Suo dispaccio, e faccio questo pensiero che dico come ricordo

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