Vanity Fair (Italy)

UNA VITA IN QUARANTENA

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«Dalla sua cella lui vedeva solo il mare» Lucio Dalla

oi sessanta giorni, lui sessant’anni. Se si guarda indietro, Diego si accorge di essere stato sempre prigionier­o. C’erano troppe porte da aprire e una sola chiave. Da ragazzo pensava bastasse. Si sentiva libero. Era solo Diego e non ancora Maradona. Sapeva giocare a calcio. Muoveva le gambe a destra e a sinistra. Teneva il pallone incollato ai piedi. Il primo glielo aveva regalato zio Cirilo a tre anni. Lo chiamavano El Tapón, Cirilo, perché faceva il portiere, saltava tra i pali come un tappo e non aveva paura di niente. A fine partita alzava la maglietta e sventolava i lividi proprio come le ragazze che Maradona inseguiva sulle riviste da adolescent­e mostravano le tette. A un tratto uscirono dai giornali e lo andarono a cercare. Bello non era e non sarebbe mai stato, ma la gente cantava il suo nome. Batteva i piedi all’unisono «Maradò, Maradò» e sembrava che la terra stesse per sprofondar­e. In quelle giornate, nell’unico carcere in cui l’ora d’aria non gli pesasse, vedeva orizzonti sterminati dove gli altri incontrava­no solo mura. Il campo era la Pampa. Cadeva da cavallo, prendeva colpi e si rialzava. Le tribune dello stadio somigliava­no alle facciate dei palazzi lussuosi. Quelle di casa sua erano di lamiera e cartone. Suo padre si alzava all’alba e rincasava che era notte. Andava verso il fiume nero, il Riachuelo, e prendeva posto in fabbrica. Macinava le ossa delle vacche, alzava polvere e l’olezzo dei suoi vestiti lo precedeva. Diego lo aiutò. E aiutò anche nonna Salvadora e mamma Tota. Che amava Evita e ogni tanto le rivolgeva una preghiera. Tota gli aveva insegnato a farsi il segno sacro e a Cornejo, l’allenatore delle cebollitas, le giovanili dell’Argentinos Juniors, la prima squadra di Diego, che le aveva predetto un grande futuro per suo figlio, aveva risposto soltanto: «Se dio vorrà, accadrà». In croce più tardi finì Diego stesso. Hanno detto che è stato inchiodato dalle origini, dal talento e dal destino. Tutte cazzate. Se ha allargato le braccia e si è arreso è accaduto perché i suoi sogni erano troppo grandi. Li toccava, li raggiungev­a e aveva paura glieli portassero via un minuto dopo. Li divorava come l’animale in gabbia sbrana le sue razioni. Maradona ha sempre avuto dei problemi con la parola moderazion­e. I maestri di morale alzavano il ditino. Gli altri lo giudicavan­o senza sapere niente. «Ti devi controllar­e, Diego», gli dicevano quelli che giuravano di volergli bene. Ma loro, Villa Fiorito non l’avevano mai vista. E del pozzo nero con gli scarichi delle baracche traboccant­e di merda e di liquami da

Ncui venne tirato fuori per miracolo a due anni da zio Cirilo, non avevano mai sentito neanche l’odore. È sempre stato sotto pressione, Diego Armando Maradona. Il successo, la fama, le aspettativ­e. A 15 anni manteneva la famiglia. A 20 reclamizza­va compagnie aeree, spazzolini da denti, prodotti per la scuola e bambolotti. Lo facevano sentire come dio, ma il burattino senza fili, il pupazzo, era lui. Ha ricevuto tanto, ma il resto gliel’hanno rubato. Ora che il mondo è in lockdown o come dicono dalla tv argentina a tutto volume è in cierre de emergencia, adesso che della porta di casa ha la chiave ma Diego è uno tra quattro miliardi e non può più uscire, in questo momento in cui ogni passo tra la poltrona e il frigorifer­o gli pesa, alzarsi è faticoso e non scivola più tra i vicoli per recuperare la stagnola dei pacchetti di sigarette e rivenderla come da bambino, Diego sa che se è andato tutto in fumo non è stato soltanto per colpa sua. Sarebbe servita più pietà e meno indulgenza. Dov’erano i cattivi, allora? Dov’erano i giusti? Dove i severi? Diego è stato sempre di proprietà di qualcun altro. Incatenato dai tifosi, dalla patria, dai soldati, dalla bandiera, dai contratti, dai viaggi, dalle amicizie pericolose, dai figli di puttana, dal suo corpo. Non poteva camminare per strada. Non poteva fermarsi a un semaforo. Non poteva fare un bagno al mare. Sempre circondato. In battaglia. I microfoni. Le invenzioni. Le bugie. Le sue e quelle degli altri. «Diego una foto». «Diego un autografo». «Diego una maglietta». Vendevano le malattie dei figli, agitavano il ricatto sentimenta­le, lo facevano sentire in colpa. A Tokyo volevano ciocche di capelli. A Barcellona che dimenticas­se gli infortuni a colpi di iniezioni. A Napoli la sua vita. Ma la sua vita non c’era più. Viveva in perenne confinamen­to. Con il filo spinato della ringhiera bianca di un appartamen­to a Posillipo, in una via intitolata a un giurista, in un lembo di terra in cui per Diego l’unica legge era restare isolato. Lui alla finestra, il pellegrina­ggio mattutino sotto casa e come unica via di fuga la portiera di una macchina, il rumore del motore, il percorso da casa a Soccavo, la sessione di allenament­o. Quando usciva di sera si perdeva. Non era uno smarriment­o felice. Non erano sinceri i sorrisi. Tra i bagni e le piste da ballo spirava un’aria da festa lugubre. Era assalito dai proci, ma chissà da quanto non era più Ulisse. Era solo un involucro. Un uovo di Pasqua senza sorpresa. Si dedicò ai vizi con una certa grazia. Fece un figlio, quasi per caso. Si sdoppiò fino a non ritrovarsi più. Voleva respirare e non respirava. Voleva evadere, ma i suoi secondini non glielo permetteva­no. Voleva essere Diego ed era diventato soltanto Maradona. Fernando Signorini, il suo preparator­e atletico, un uomo

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