Vanity Fair (Italy)

LA SOLITUDINE DEL CAPO

Le balle di Liedholm, la sedia di Mondonico, l’architettu­ra di Sacchi, i gradoni ossessiona­nti di Zeman e gli sfoghi di Antonio Conte. Fenomenolo­gia dell’allenatore di calcio, in lockdown permanente

- Di PIERLUIGI PARDO

Amo il calcio, soprattutt­o gli allenatori. Il loro destino incerto e letterario. La solitudine. Un lockdown permanente. Il potere e il peso delle scelte. Il coraggio e la paura di sbagliare. Strategia, psicologia. E follia, anche.

Nessuno come loro vive lo stress del calcio. Il paradosso della tensione accumulata che non puoi scaricare correndo o tirando forte un pallone. Si richiedono invece equilibrio e lucidità, mica facile. Se nessuno al mondo si salva da solo, figuriamoc­i loro. L’allenatore è il primo a pagare se le cose vanno male, il più autentico difensore del bene comune in uno spogliatoi­o che spesso è invece la somma di diversi, convergent­i egoismi.

Una figura spesso ossessiva, folle e romantica. Un leader che con l’evoluzione del Gioco diventa sempre di più manager d’impresa, ispiratore di pensiero più che di schemi tattici. Di carisma, più che di muscoli da allenare. Di politica più che di stop di petto e diagonali difensive.

La storia del calcio ci consegna un Pantheon ricchissim­o e articolato, dove c’è spazio per tutto e il suo contrario.

Volando in Inghilterr­a ci si innamora facilmente degli aforismi di Brian Clough: «Non direi di essere il miglior allenatore al mondo, ma sono sicurament­e nella top one» e del socialismo di Bill Shankly, figlio della working class scozzese. Minatore convertito al Football applicò il suo modello ideologico al Liverpool, Hasta la Victoria.

Labourismo ripreso più tardi da Sir Alex Ferguson, che fu addirittur­a tra i consiglier­i fidati di Tony Blair. Figlio di portuali del Nord, la parte più povera del Paese, contrappos­ta, fin dalle origini del Football, ai nobili londinesi. Lotta di classe e pallone, ancor prima del 1900.

A Napoli c’è chi ha avuto la fortuna di conoscere «’O Petisso» Pesaola. Lo incontravi quando era ormai notte, da Mimì alla Ferrovia. Ti raccontava l’intuizione pre-mediatica, in pieni anni Sessanta, di «allenare i giornalist­i», dando alla stampa ogni giorno qualche notizia innocua e magari utile al morale della squadra.

Un precursore dell’allenatore moderno che è anche comunicato­re, politico, psicologo, addestrato­re di anime, non solo di piedi. Innovatore, in qualche caso. Arrigo Sacchi sta al calcio come Le Corbusier all’architettu­ra. La sua Unité d’Habitation è stato il 4-4-2 visionario applicato al Milan. Arrigo agli amici dà sempre lo stesso consiglio: «Circondate­vi di persone ottimiste. Il mondo è nelle loro mani». Ha vinto molto e innovato di più. Ma anche lui a un certo punto si è fermato. Troppo stress.

Piccoli e grandi, ricchissim­i o in perenne ricerca di un ingaggio. Metropolit­ani o perfetti per la provincia, dialettici o dogmatici. I gradoni ossessiona­nti di Zeman, il 3-3-4 visionario e incompiuto di Glerean (vedi pagina precedente), la Weltanscha­uung di Galeone che ispirò Allegri, i mitici cazziatoni di Eziolino Capuano, la corsa di Mazzone in quel Brescia-Atalanta, il «Dò fastidio se fumo?» di Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari, che una notte sorprese i suoi giocatori in ritiro a bere e a fumare e invece di punirli rimase con loro a farsi qualche sigaretta. Il giorno dopo vinse tre a zero e portò lo scudetto in Sardegna.

Ancora, la sedia alzata da Mondonico in quella maledetta finale. Una piccola violenza su quel pezzo di legno che dentro di sé portava tutta la languida orgogliosa appartenen­za granata e la rabbia contro l’ingiustizi­a che si stava consumando.

Se sali di categoria e di ingaggio le cose non cambiano. Il colpo di teatro è sempre in agguato. Le manette di Mou, gli sfoghi di Antonio Conte, le subordinat­e di quarto grado di Spalletti, i filtrini maltrattat­i da Sarri. Puoi aumentare stipendio ed esperienza ma quell’istinto folle, quella solitudine bellissima e disperata resta. Non c’è via di uscita. Perché il calcio è il più terribile e umorale degli sport. Metà valore e metà fortuna.

L’ allenatore sa di non avere scelta. Senza i suoi giocatori è perduto e comunque vada resta un uomo solo. A cercare alchimie, a dare un senso alla musica, come fosse Abbado.

Ci vuole una grande pace dentro per resistere. Un’ironia dolce per farsi amare dai propri orchestral­i. Nils Liedholm, per esempio. Il senso della battuta. Un giorno raccontò ai suoi giocatori le sue imprese da calciatore del Milan di molto tempo prima. Disse che era talmente forte che per anni non aveva mai sbagliato un passaggio. Quando avvenne, la gente di San Siro era talmente incredula che scoppiò in un applauso spontaneo.

Ovviamente non era vero, ma era bellissimo sentirglie­lo dire.

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