Vanity Fair (Italy)

IL PREZZO PIÙ ALTO

Solo se la perdi, sai che cos’è: un premio Nobel per la Pace, costretta a vivere fuori dal suo Paese, l’IRAN, racconta la sostanza della libertà. Un valore per cui c’è chi sceglie di lottare, e chi resta a guardare

- Di SHIRIN EBADI foto JOEL SAGET

o so che cosa vuol dire perdere la libertà. L’ho provato, sono nata e ho vissuto in Iran, un Paese dove c’è un sistema religioso dittatoria­le. Ho perso la libertà di poter professare il mio lavoro: ero un giudice e non potevo esercitare perché sono una donna. Ho perso la libertà materiale, perché ho difeso gli studenti che erano stati attaccati dalla polizia e sono stata arrestata. Ho perso la libertà di espression­e perché non ho avuto il permesso di pubblicare alcuni miei libri. Ho perso anche la libertà personale: la legge iraniana impone alle donne di indossare il velo e io, che pur sono musulmana, quel velo non volevo indossarlo. La libertà e la democrazia hanno il loro prezzo, poi ognuno decide quanto è disposto a pagare: dipende dall’importanza che ogni persona dà a quei valori. Io, pur di essere libera e pur di avvicinarm­i alla democrazia, sono stata disposta a perdere tutti i miei averi, il mio lavoro, sono stata costretta ad allontanar­mi anche dalla mia famiglia. Io ho due figlie ormai adulte e, con mio marito, le abbiamo sempre lasciate autonome nelle loro scelte di vita: hanno scelto da sole che cosa studiare, che cosa fare, dove vivere. Hanno scelto i loro mariti senza chiedere il parere di nessuno. Sono cresciute vedendomi difendere i diritti per la libertà e ho sempre insegnato loro che niente, né i soldi né le questioni sentimenta­li, possono intralciar­e le loro scelte.

È importante capire e conoscere la libertà: vedo che alcune persone, che libere non sono, non si lamentano neppure della propria condizione, perché non immaginano nemmeno che cosa voglia dire essere liberi. Durante un viaggio nel Golfo Persico, ho incontrato un uomo, pure istruito, un professore delle scuole superiori, e gli ho chiesto che cosa pensava del fatto che nel suo Paese non ci fosse un parlamento, che non ci fosse la democrazia, gli ho chiesto se non gli sembrasse strano che la gente sopportass­e tutto questo, senza nemmeno protestare. Lui mi ha guardato, anche un po’ stupito, e con tutta tranquilli­tà mi ha detto: «Noi siamo abbastanza ricchi e non abbiamo bisogno della democrazia». Per lui la democrazia era in un certo senso paragonabi­le alla ricchezza, era sinonimo dell’avere soldi e non si poneva assolutame­nte il problema di una libertà politica. La democrazia è cultura e deve essere insegnata fin dall’infanzia. Io ho studiato per diventare giudice e l’essere liberi è una condizione fondamenta­le per chi fa il mio mestiere: un giudice non deve aver paura di nessuno ed è importante che guadagni abbastanza per riuscire a essere libero anche da un punto di vista economico, così che non cada in tentazione qualora gli dovessero offrire dei soldi, per

IUna vita per gli altri

Shirin Ebadi (1947), prima donna giudice dell’Iran, è stata insignita del premio Nobel per la Pace nel 2003 per i suoi sforzi pionierist­ici nel promuovere i diritti di donne, bambini e prigionier­i politici nel suo Paese. Dopo la Rivoluzion­e del 1979, ha istituito una pratica legale pro bono e ha fondato il Centro per i difensori dei diritti umani per combattere le ingiustizi­e nel sistema legale. Tra i suoi molti libri, Il mio Iran. Una vita di rivoluzion­e e speranza (2006, Sperling & Kupfer), La gabbia d’oro (2009, BUR) e Finché non saremo liberi (2016, Bompiani). corrompere le sue scelte. Io purtroppo quel mestiere non l’ho potuto fare nel mio Paese e me ne sono dovuta andare: se fossi rimasta lì mi avrebbero arrestata di nuovo. Non che la cosa mi spaventass­e più di tanto, in fondo l’avevo già provato, ma in carcere non avrei potuto aiutare i miei connaziona­li come invece riesco a fare da fuori: per poter essere il loro megafono dovevo andarmene. Il mio cuore e la mia anima sono però ancora là e tutto quello che faccio è per aiutare il mio Iran, per cui, con la onlus che ho fondato, il Centro per i difensori dei diritti umani, mi batto quotidiana­mente perché i miei concittadi­ni ottengano il prima possibile la libertà politica sociale e personale che a oggi manca. L’esperienza di 41 anni di regime di Repubblica islamica ci fa vedere tutti i disastrosi limiti di un regime ideologico, che porta a crudeli atrocità.

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