RITRATTO DI UN UOMO LIBERO
Solitamente piuttosto defilato, questa volta RENZO ROSSO ha voglia di parlare. Per dire a chi ci governa che è arrivato il momento di ascoltare i veri bisogni delle persone. E per spiegare la sua idea di felicità. Che prevede fatica e lacrime
Renzo Rosso, 64 anni. Ha sette figli e presiede un grande polo della moda che comprende molti marchi. Ha cominciato fondando Diesel.
er raccontare chi è, e che cosa pensa del mondo, Renzo Rosso cita spesso suo padre. L’uomo da cui ha imparato che certe cose, nella vita, sono delitti. Tra i più gravi: lasciare gli avanzi nel piatto, non rispettare gli altri, scansare la fatica. Faceva il contadino, racconta di lui, lo chiamava semplicemente «Figlio» e senza tante parole gli ha insegnato a essere «uno che si sveglia la mattina ed è contento». Ci è riuscito abbastanza anche in questi mesi difficili, durante i quali, ammette, ha fatto più vita famigliare che negli ultimi 20 anni, ha dovuto prendere decisioni sofferte, ripensare tante cose, dare un aiuto ancora più importante alla comunità nella quale vive. «Perché se la gente ti riconosce per strada, ma tutti sanno che sei un pezzo di merda, che senso ha?». Fare qualcosa per gli altri è un altro degli insegnamenti paterni intorno cui ha costruito progetti (una fondazione che si chiama OTB, acronimo di Only The Brave) e soddisfazioni personali. «Se mi rendo utile sto bene, e se sto bene mi sento un uomo libero».
PChi è un uomo libero?
«Un uomo felice di stare all’interno delle regole. Regole che non sono costrizioni, ma occasioni per crescere ed essere persone migliori».
Quelle che regolano la nostra vita sono così?
«Non tutte. Mi piacerebbe fossero ispirate a valori più alti, come l’onestà. Io credo che l’onestà sia una cosa bellissima».
Che cosa limita la sua libertà?
«Da imprenditore le rispondo la burocrazia. Ho letto che, in questi mesi in cui la gente ha perso il lavoro e le lungaggini hanno ritardato l’arrivo dei soldi della Cassa integrazione, lo strozzinaggio è aumentano vertiginosamente. Se il nostro Paese non riesce a liberarsi dalla burocrazia, a diventare agile, finiremo per metà mangiati dalla criminalità organizzata e per l’altra metà dai grandi gruppi internazionali».
Di che cosa c’è bisogno per uscire da questo pantano?
«Guardi, io non credo di essere un genio, ma penso di aver saputo dare ai ragazzi quello che desideravano. I bisogni veri della gente vanno ascoltati, se fai moda, ma a maggior ragione se fai politica. Trovo scandaloso che qualcuno, al governo, abbia usato questo tempo della pandemia per farsi campagna elettorale, per dire le cose che le persone volevano sentirsi dire, ignorando completamente i problemi veri e concreti. I consulenti, e i consulenti dei consulenti, non sono la risposta ai nostri bisogni».
Chi li conosce questi bisogni?
«Chi sta sul campo. In Italia abbiamo manager e imprenditori eccellenti. Non faccio nomi perché dimenticherei qualcuno e non vorrei si offendesse».
Si sta candidando?
«Mi hanno offerto molti ruoli in politica, anche importanti. Ho sempre detto no senza rimpianti perché io sono uno che le cose le vuole dire e anche fare davvero, e perché voglio rimanere, per l’appunto, un uomo libero. Cosa che mi sembra in politica non sia possibile. E non solo in Italia, ma ovunque».
È solo un problema di chi ci governa?
«Ma no, c’è anche un altro discorso da fare: ci vuole un cambiamento culturale. Io credo che dobbiamo cominciare a parlare una lingua intelligente e seria con gli italiani. Finché la maggior parte dei giornali e dei programmi televisivi girerà intorno al gossip, non credo ci possano essere molte chance di evoluzione».
Come vede l’immediato futuro?
«Ho timore che i prossimi mesi saranno difficili: se l’economia non si riprende la gente sarà arrabbiata. Forse abbiamo bisogno di toccare il fondo per risalire. Mio padre diceva che quando l’acqua ti arriva alla bocca, è allora che impari a nuotare. E io sono d’accordo. Ci aspetta della sofferenza, una cosa attraverso cui bisogna spesso passare, per ricominciare. La fatica è quella cosa che ti dà la misura delle tue conquiste».
Qual è la cosa che lei si è sudato di più nella vita?
«Ho sudato ogni singolo giorno della mia vita. Ma se devo scegliere un momento preciso, direi quello in cui ho dovuto ripensare completamente al marchio Diesel, dopo 40 anni di successi. Non è stato facile».
E quella che le ha dato più soddisfazione?
«La mia fondazione, perché non ha costi di amministrazione e tutto quello che entra va dove serve. In questi mesi di emergenza abbiamo saltato tutti i passaggi intermedi e, parlando direttamente con i primari, abbiamo fatto avere agli ospedali e alle case di cura quello di cui avevano bisogno. Ma il Covid non è stata solo un’emergenza sanitaria: durante il lockdown è aumentata esponenzialmente la violenza domestica, per di più praticata davanti agli occhi dei figli, e anche qui siamo intervenuti con il servizio d’ascolto e di assistenza legale e psicologica. E infine non dobbiamo dimenticare che la pandemia sta diventando causa di povertà per moltissime famiglie, che aiutiamo con i pacchi spesa attraverso la Croce Rossa. Alle grandi operazioni preferiamo i piccoli progetti. A noi, l’ospedale da 21 milioni, ora da smantellare, non interessa».
Un motto dice che la beneficenza si fa, ma non si dice.
«Anche io pensavo fosse così, poi un giorno ho conosciuto il Dalai Lama di cui, anche se non sono buddista, sono diventato amico e vedo ogni anno, e lui mi ha detto che il bene, se lo si fa, bisogna raccontarlo, perché magari a qualcuno può venire voglia di imitarti. Da allora comunichiamo tutte le iniziative benefiche in cui ci impegniamo. C’è una cosa, in particolare, che vorrei fosse imitata in questo momento difficile: il progetto Cash. Facciamo credito ai piccoli artigiani che lavorano con noi – chi fa la lavanderia, chi la stireria, chi produce gli accessori – a tassi veramente vantaggiosi rispetto a quelli bancari, e senza burocrazia. Le aziende grandi vivono grazie a quelle piccole, e se le piccole fossero sostenute dalle grandi potremmo fare molto più Made in Italy di quello che facciamo ora».
Che cosa ne pensa di ridurre le sfilate, e le collezioni?
«Bene, perché è giusto che gli abiti vivano più a lungo e che per la moda si viaggi, e quindi si inquini, di meno. Però bisogna inventarsi qualcosa perché le persone entrino nei negozi non solo due volte l’anno. Se no sono problemi».
In questa new normality, la libertà avrà un significato diverso?
«Tante cose sono cambiate, anche le libertà si sono ristrette, ma è qualcosa attraverso cui dobbiamo passare. Mio padre diceva che non esiste soddisfazione senza frustrazione. Io nella mia vita ho pianto spesso e tanto, ma poi sono stato anche immensamente felice». ➺ Tempo di lettura: 6 minuti