MATTEO ROVERE
Ha la passione per i miti e le storie che hanno creato la città eterna: il regista MATTEO ROVERE ci riporta nella Roma del passato con una serie tv che, volendo, si può ascoltare anche nella lingua delle origini
Dopo il film, la serie tv Romulus
Racconta il regista Matteo Rovere – già esploratore delle origini di Roma col suo colossal Il primo re – che «sulla vicenda, storici e archeologi si menano come fossero ultrà, biancazzurri o giallorossi». Da una parte, chi sostiene la verità storica del sovrano fratricida che fondò la Città Eterna sul colle Palatino: Romolo. Dall’altra chi lo relega a leggenda, pretesto a posteriori per dare un passato comune a genti molto diverse. Per cavarsela nella rissa (lui si dichiara tifoso della seconda compagine), Rovere ha realizzato una serie tv in grado di fare un passo indietro e andare a esplorare i miti (e le storie) che hanno creato il mito (e la storia): le città di Alba Longa e di Velia, le trenta tribù del Lazio in lotta perenne e in cerca di un re unificatore, il sesso crudo utilizzato come leva di potere, le vestali con le loro visioni e le sacerdotesse che interpretando un volo d’uccelli potevano spodestare un re dopo averlo fatto accecare con ferri roventi. Prodotta da Sky, Cattleya e Groenlandia, Romulus (dal 6 novembre per dieci puntate su Sky Atlantic e Now TV) è girata completamente in protolatino, e chi vorrà ascoltarla in lingua originale potrà trovare cadenze, reminiscenze e archetipi di un suono che ci appartiene profondamente. Partendo da un posto semplice: i banchi di scuola.
Lei dove vive?
«In viale dell’Università, nella cosiddetta upper San Lorenzo. Una zona di famiglie ma anche molto mista: da una parte c’è la stazione Termini con la sua umanità a volte un po’
derelitta, e dall’altra la zona dei palazzi umbertini, coi soffitti alti, che amo molto».
Dopo aver fatto un film e una serie tv sulla genesi della città, com’è cambiata la sua percezione di Roma?
«Intanto bisogna premettere che sono un romano atipico, un cittadino di prima generazione: ci sono nato, ma i miei genitori sono piemontesi e romagnoli. E poi ho zii greci, un mix che rappresenta perfettamente l’anima di questo luogo. Il primo re si concludeva con Plutarco che raccontava la città come un posto in cui trovavano rifugio ladri e poeti, filosofi e concubine, dove poteva vivere chiunque non sapesse dove andare. Detto questo, avendola vissuta dalla sua fondazione, ora ne apprezzo molto di più la contemporaneità, e mi ci sono rappacificato: la stratificazione che va dalle epigrafi sui muri a Zerocalcare mi piace. È una città fatta dagli individui che l’hanno transitata, che allo stesso tempo ti appartiene e ti disappartiene. È una metropoli cosmopolita che non si può mettere in ordine».
Calenda sarà felice di saperlo.
«Ma chi, Calenda Carlo? Il leader autocostituito?».
Come unificatore delle tribù non le piace?
«Ma sì, io sono un suo fan. Ma chi vedrà la serie si accorgerà di quanto la politica contemporanea assomigli a quella dell’Ottavo secolo avanti Cristo. Una faccenda di potere. E di come il potere riesce a raccontare se stesso».
Da cittadino di prima generazione, qual è l’icona dell’Urbe che ha più segnato la sua immaginazione?
«L’elemento verde, il connubio con l’albero, la pianta, il fiore. Non è un caso se nel mito si parla della “lupa”: essa rappresenta la selva, e Roma nasce proprio nel momento in cui il bosco si inurba. Io stesso, per girare, non son dovuto andare lontano: la Riserva dellA’ niene, il parco di Veio, il parco della Caffarella, Tor Marancia, l’Insugherata. Insomma, la natura di ventotto secoli fa, tutta intorno al raccordo anulare».
L’idea di ritentare l’esperimento de Il primo re, e girare in protolatino, di chi è stata?
«Nostra e dei produttori internazionali, che volevano un “premium content”: schiacci un pulsante sul telecomando, e in un attimo tutta la serie si trasforma. Abbiamo interpellato i linguisti per ottenere una lingua vera, con le espressioni dialettali, con le bassezze. Ha presente il latinorum maccheronico di certi prodotti americani, tipo La Passione di Cristo di Mel Gibson? Ecco, se li scordi, questa è tutta un’altra cosa».
E quali università ha interpellato per ottenere il parlato di una lingua mai ascoltata?
«Nessuna università: ho cercato nei licei. La prima professoressa l’ho trovata al Mamiani, lo stesso in cui ho studiato anch’io: Gianfranca Privitera, considerata un’eminenza grigia della traduzione. La seconda è Daniela Zanarini, grandissima epigrafista. Hanno fatto un lavoro pazzesco, sono il Barcellona del latino arcaico».
Cosa dicono i personaggi mentre fanno l’amore?
«Nulla, perché il sesso è crudo, fatto per la dominazione. Posso dirle però cosa dicono mentre si scannano l’uno con l’altro: Sacratos! per esempio, che abbiamo tradotto con una certa gentilezza “maledetto da Dio”, ma in realtà starebbe per “pezzo di m….”, e che scherzando usavamo anche tra noi della troupe. La necessità di avere questo frasario di strada è venuta fuori grazie alle controfigure, che volevano imprecazioni credibili per le scene di battaglia. Così abbiamo tappezzato di parolacce le pareti della palestra dove si allenavano: Disròptom!, che vuol dire “Crepa!”, Dierècte!, che parafrasando parecchio si potrebbe tradurre con “Alla malora!”. E poi il mio preferito, Propùdiom!, che sta per “Infame!”».
Colpisce il numero di stuntman e l’uso senza risparmio delle comparse. Ma quante sono?
«I figuranti sono quasi diecimila. Le controfigure, millecinquecento».
Tutti pagati ottanta euro al giorno?
«Ottantotto per la precisione, a cui vanno sommati i contributi. Ma ci sono anche quelli che sono costati duecento, trecento, cinquecento. Il budget per tutta la serie ha superato ampiamente i venti milioni di euro».
Dalla tecnologia dell’emozione, ma sempre un po’ poverella, una produzione italiana che finalmente non risparmia mezzi.
«A me capita di fare il produttore esecutivo di serie americane, e lo posso dire con certezza: in Italia abbiamo le migliori maestranze del mondo, anche se non sempre il livello delle produzioni permette di esprimere al meglio questo potenziale. Con Romulus, volevo che il production value fosse evidente, che il valore aggiunto davanti allo spettatore fosse inconfondibile. Abbiamo ricostruito intere città affinché chi guarda possa immergervisi dentro. È la magia del cinema. E anche il delirio di noi registi, lo ammetto».
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