PAOLO DI PAOLO
Wuhan
Per le strade, come sempre, lanterne rosse, vetrine decorate, banchi che vendono spiedini di caramelle. Il Capodanno cinese a Wuhan è stato un esercizio di dimenticanza collettiva. Nessuno ha più voglia di parlare del virus: appena si affaccia nei discorsi, si cambia argomento. «È come se avessimo preso un anestetico», dice una donna, Mary Xu, a una cronista del Los Angeles Times. Fa la terapeuta; e spiega che dietro i silenzi, i modi evasivi, c’è ancora il dolore. La paura è lì. Le persone hanno costruito un guscio, una corazza, ma è una difesa molto fragile. Le crisi di panico, i sensi di colpa, il lutto che sembra impossibile elaborare. I ricordi. Tutti vorrebbero cancellarli, ma come si fa – mettiamo – con il ricordo di un figlio malato che, in assenza di ambulanze, viene caricato su un camion a pianale aperto e fa un’ora di viaggio sotto la pioggia? Immagino la scena mentre ne scrivo: è brutale, è disperante. Non può andarsene dagli occhi. «Penso sempre a lui da solo, a come è morto senza nessuno», dice Zhong, la madre di quel giovane uomo. «Quel tipo di impotenza. Quel tipo di paura. Non riesco a smettere di pensarci. Non riesco a superarlo». Mi torna in mente una delle città invisibili raccontate da Italo Calvino: una città chiamata Zaira, che non riesce a liberarsi dei ricordi, ed è «fatta di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato». Non è possibile smaltirlo (al governo cinese non dispiacerebbe) come si smaltiscono i rifiuti. Perché anche se «la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole».