RAMI MALEK
L’Oscar per il suo Freddie Mercury, oggi il ruolo di un detective ossessivo. RAMI MALEK non interpreta: si trasforma nei suoi personaggi. Fin da quando, da bambino, inventava voci nella cameretta. E si trovò a un bivio: follia o recitazione
Detective in
Fino all’ultimo indizio
Avolte si capisce dalla faccia, che sei destinato a dividere. Lui ha iniziato a farlo dal premio più prestigioso che possa vincere un attore: Rami Malek ha già avuto fra le mani un Oscar. Per alcuni vincere la statuetta interpretando una leggenda della musica, senza cantare, è stata cosa troppo facile. Per i colleghi attori, invece, con il Freddie Mercury di Bohemian Rapsody è andato molto al di là della recitazione. «Sarebbe stato più facile insegnare a un cantante vero a recitare, che trasformare un attore nel leader dei Queen», ha detto pochi giorni fa Jared Leto, premio Oscar e leader dei Thirty Seconds to Mars. Hanno condiviso il set di Fino all’ultimo indizio, insieme a Denzel Washington, trasformando questo thriller vintage ambientato negli anni Novanta in un evento mediatico ad alto tasso hollywoodiano. Nei panni di Jim Baxter, sergente di polizia in giacca e cravatta, Malek spiazza di nuovo. Siamo a Los Angeles, lui chiede a un vice sceriffo (Washington) di aiutarlo nella caccia a un serial killer (Jared Leto). Il film sarà disponibile dal 5 marzo (per l’acquisto e il noleggio premium su Amazon Prime Video, Apple Tv, Sky Primafila e Infinity).
Dall’altra parte dello schermo, in dolcevita nero, con baffetti e capelli corvini, Malek ha occhi espressivi e voce profonda. Hai la sensazione, quasi impercettibile, che senta il bisogno di giustificarsi per il suo successo, lui che è nato a Los Angeles da famiglia ortodossa di immigrati egiziani di prima generazione. Eppure già come hacker in Mr. Robot, sei anni fa, aveva fatto capire che di lui si sarebbe parlato parecchio. Il prossimo autunno sarà nel nuovo James Bond, No Time To Die, e nel film ancora senza titolo di David O. Russell, con un cast che è un tripudio e che annovera da Christian Bale a Robert De Niro.
Che cosa l’ha attratta di un thriller che era rimasto nel cassetto del regista per trent’anni?
«Sento le cose a pelle. Appena letta la sceneggiatura sapevo che sarebbe stato speciale. È un noir ambientato tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, ha qualcosa di nostalgico, un ingrediente che non trovi più nei film di oggi. E poi c’era una dualità irresistibile: avere un lavoro psicologicamente molto incerto, da una parte, e dall’altra tornare a casa dalla famiglia, essere un padre e un marito».
In cosa assomiglia a questo personaggio?
«Sembra avere un motto, “non perdere tempo, fai tutto il possibile”. Lo condivido».
Si è piazzato mesi in un comando di polizia, per assorbire la stoffa dei detective?
«No, ho lavorato cercando di rispondere a una domanda: cosa significa essere un detective?».
Gli attori dicono di imparare sempre qualcosa dai personaggi dei film, con cosa si è confrontato stavolta?
«Con l’ossessione. Io e Denzel siamo uomini un po’ tossici, il nostro caso diventa una droga. Ma come la pandemia ci sta insegnando a forza, impariamo che non si può sempre risolvere tutto. Abbiamo vissuto chiudendo la mente sugli obiettivi da raggiungere, trascurando le cose più importanti della vita».
Le ha riscoperte?
«Ho rivalutato le relazioni, quelle famigliari e con gli amici, e ho capito quanto siamo tutti interconnessi. Ho portato più attenzione alla qualità di quello che faccio, analizzando le cose da punti di vista nuovi».
Dopo averla vista in calzamaglia e dentiera sporgente, non è il primo a cui si pensa per un tenente di polizia in giacca e cravatta.
«Infatti ero molto nervoso, ma a noi attori il nervosismo fa un effetto eccitante».
Lei, Denzel e Jared nella stessa stanza, fuochi d’artificio.
«In effetti c’era elettricità sul set, circolavano anche molte emozioni che ognuno cercava di reprimere a modo suo, cosa che crea un’atmosfera perfetta per raccontare una storia».
Una leggenda come Denzel Washington che tipo di pensieri scatena?
«Ho fatto del mio meglio per bere tutta la conoscenza che ha, e nei momenti appropriati gli chiedevo tutto. Da una parte avevo lui, la vecchia scuola, dall’altra Jared, che è imprevedibile: una bella corrente, appunto».
L’ha diretta anche Paul Thomas Anderson in The Master. Che cosa ha imparato da lui?
«Quando lavori con un genio segui lui, non il tuo istinto».
Il momento virtuale in cui siamo immersi le piace?
«Tutto è a portata di tastiera, e questo non è un male. Ma ormai ci parliamo attraverso monitor, telefonini, icone ed emoji, rimpiango i vecchi tempi».
Lei che emoticon usa più di frequente?
«Non ne uso, sono un tipo vintage in questo senso».
Qual è la cosa che le riesce difficile, nella vita?
«Quando sono su un set ascolto ogni parola, percepisco ogni minimo dettaglio di un corpo, ogni sfumatura psicologica di un racconto. Sono cose che mi riescono difficilissime, nella vita vera».
Come è riuscito a credere di poter diventare Freddie Mercury?
«Non l’ho mai reputato possibile, finché ho scoperto le origini straniere, il suo vero nome era Farrokh Bulsara, un messaggio che ho preso come personale da subito».
Come passava il tempo, da ragazzo?
«Stavo molto da solo, inventavo personaggi e voci in camera mia. A un certo punto mi è stato chiaro: sarei diventato matto, oppure avrei trovato qualcosa in cui incanalare la mia energia».
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