WILLIE PEYOTE
Per la prima volta a Sanremo, WILLIE PEYOTE punta il dito contro un mondo della cultura dove conta solo l’intrattenimento: «Prenderò in giro tutti, anche me stesso»
Prenderò in giro tutti, anche me stesso
Per capire fino in fondo il titolo e il significato della canzone che Willie Peyote ha scelto di presentare al primo Festival di Sanremo della sua carriera bisogna partire da Boris, la serie cult trasmessa da Fox dal 2007 al 2010 che tornerà presto con una nuova stagione su Star, la nuova sezione di Disney+. In una puntata diventata storica Valerio Aprea istruiva i colleghi sulla cosiddetta «locura», definita come «il peggior conservatorismo che, però, si tinge di simpatia, di colore, di paillettes». «Quel monologo mi ha ispirato l’approccio della canzone, perché è evidente che oggi nella cultura conti solo l’intrattenimento. Il verso con cui inizia il testo, poi, è emblematico: cosa c’è di più calzante di un Sanremo con dentro “le musichette mentre fuori c’è la morte?”», si chiede Peyote, nome d’arte di Guglielmo Bruno, in collegamento su Zoom, spiegando che il suo intento non è tanto di provocare ma di smuovere le acque, prendere in giro il mondo al quale lui stesso appartiene, incluso quello delle grandi major che spesso inseguono i fenomeni del momento che ballano su TikTok. «Prendo in giro tutti, sono come il giullare di corte che era l’unico che poteva andare dal re a dirgli che era un coglione. Ecco, io sono il giullare di questo Sanremo», insiste Willie, pronto ad affrontare il palco più temuto per un artista passando «dall’essere molto contento di esserci al pensare di aver fatto la più grande cazzata della mia vita».
Pensa che dopo aver ascoltato Mai dire mai (La locura) qualcuno si arrabbierà?
«Se si arrabbiano vuol dire che non hanno fatto un’analisi del testo. Vorrei semplicemente fare quello che ha fatto Ricky Gervais ai Golden Globes dell’anno scorso: c’è un elefante nella stanza, nessuno ne vuole parlare e allora ne parlo io. Voglio prendere in giro tutti, me compreso».
Anche lei, quindi, è uno «schiavo dell’hype»?
«Certo, siamo tutti schiavi di questi meccanismi. Sappiamo che ci sono delle regole, ma possiamo chiederci per un secondo se siano giuste?».
Di certo è curioso che lo canti a Sanremo, il palco dove fa scandalo chiunque rompa le regole.
«La cosa che più mi diverte è che quest’anno la quota indie è Orietta Berti. L’intraprendenza vera oggi a Sanremo è fare Sanremo. Va benissimo il nuovo che avanza ma, se ci pensiamo, Orietta è unica perché fa una cosa che non fa più nessuno. È per questo che tifo per lei».
La classifica è importante?
«I bookmaker mi danno per favorito, ma se vincessi vorrebbe dire che non hanno capito perché ci sono andato. Non vado lì neanche per partecipare, ma per vivere. Senza contare che Sanremo è l’unico posto in cui si può suonare adesso».
È per questo che partecipa?
«In passato ho rifiutato, ma stavolta è diverso: Sanremo può rappresentare una ripartenza per tutto il comparto».
Cantare di fronte a una platea vuota la inibisce?
«Sono cresciuto cantando senza pubblico, ci sono abituato».
Da quando non si esibisce dal vivo?
«Sono stato uno degli ultimi a suonare in Italia, era il 28 febbraio 2020. E devo considerarmi fortunato, perché almeno il tour l’ho iniziato. Gli strascichi di questa cosa sono devastanti, non da meno il fatto che abbiamo avuto la conferma di prenderci troppo sul serio».
Anche lei?
«È capitato fino a quando non ho avuto stima di me stesso. È un sollievo sapere che a quasi 36 anni non mi sto più sul cazzo come quando ero adolescente. Oggi non prendo sul serio me, ma la musica che faccio».
Perché si stava sul cazzo da adolescente?
«Non mi piacevo, ero lo sfigato cervellotico, mi facevo troppe domande e non avevo grandi riscontri dall’altro sesso: mi sentivo un corpo estraneo. Ho capito dopo che per far funzionare le cose avrei dovuto smettere di voler essere quello che non ero».
Chi voleva essere?
«Chiunque riuscisse a fare quello che volevo fare io nella vita, qualsiasi musicista di cui avessi il poster in camera, da Eminem a Fabri Fibra. Poi ho scoperto che qualcosa di buono ce l’avevo anch’io e incredibilmente le cose hanno iniziato a funzionare. Quando ho smesso di preoccuparmi del giudizio degli altri, ho cominciato a piacere agli altri».
Quanto tempo ci ha messo?
«Fino ai 27 anni, attraverso un lavoro che detestavo: lavoravo in un call center, volevo ammazzarmi tutte le mattine che ci andavo ma, grazie a quell’esperienza, ho scoperto che ero bravo a comunicare e che la gente mi ascoltava».
È in quegli anni che ha scoperto Boris?
«Sì, sono stati gli anni in cui ho sofferto di depressione, sono ricorso alla terapia e mi sono reso conto che c’erano molte persone che avevano più diritto di me a essere depresse. Mi sono curato senza le medicine perché pensavo di potercela fare da solo. La depressione, a volte, è solo un errore del pensiero».
Per qualcuno anche far tornare Boris è un errore.
«A Boris vorrò sempre bene, ma ho paura che gli autori si autocensurino così come stavo per farlo io quando ho scritto la canzone. La vera sfida oggi è capire come mandare un messaggio senza dare fastidio a nessuno».
In che senso si è autocensurato?
«Ho mandato la prima versione del testo ad alcuni amici, da Daniele Fabbri a Pippo Civati, per sapere se le frasi arrivavano in un certo modo».
Dopo Sanremo cosa si aspetta?
«Di tornare a suonare quanto prima: faccio questo lavoro per fare i concerti».
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