LE PAROLE CONTANO
La guerra al SESSISMO si vince anche con il linguaggio. Nel suo nuovo libro un’intellettuale ci spiega perché. E un filosofo, una scrittrice e una psicologa ci indicano le parole per farlo
Frasi maschiliste che le donne sono stufe di sentire
Ho perso il conto delle volte in cui qualcuno mi ha detto che le battaglie sul linguaggio sono marginali e che, con tutto quello per cui occorre ancora lottare, è fuorviante e persino dannoso andare a fare pignolerie proprio sulle parole. Il sottinteso è che le parole non contino niente e forse è per questo che in troppi le usano senza prendersene mai la responsabilità. Sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto quella semantica, che è una tragedia etica.
Quello che chiamiamo «etica» formalmente è una branca della filosofia che si occupa del comportamento umano in relazione ai concetti di bene e di male, ma nella nostra quotidianità essere etici significa anche scegliere di nominare le cose in base al modo in cui abbiamo scelto di trattarle. Chiamare un visitatore improvviso col nome di «ospite» o definirlo «estraneo» non è la stessa cosa, anche se si tratta della medesima persona. Definire «angusto» un appartamento di quaranta metri quadrati oppure chiamarlo «intimo» cambia completamente il modo in cui quel luogo può essere abitato. Chi sceglie i nomi delle cose e delle persone sta scegliendo anche i comportamenti da tenere e per questo le parole sono importanti quanto e più del resto. Sbagliare nome vuol dire sbagliare approccio morale e non capire più la differenza tra il bene che si vorrebbe e il male che si fa. Questo ragionamento, che vale in senso generale, diventa due volte vero quando parliamo del divario sociale di genere. Se vuoi sapere come vivono le donne di un Paese, fai attenzione alle parole con cui vengono definite. In Italia – ma temo non solo qui – la frase sessista più ripetuta sui media e sui social network è: «Stai zitta», ed è da quella che derivano tutte le altre espressioni minorizzanti della lingua italiana. È la frase – direi meglio che è l’intenzione – che ti fa scomparire, che ti dice che quello che pensi non è importante e che devi accettare il giudizio sulla tua esistenza, le tue competenze, le tue scelte e soprattutto il tuo corpo senza protestare, anzi ringraziando per l’attenzione. È la frase che pretenderebbe di farti credere che non hai niente da dare al mondo se non il tuo stare un passo indietro, il tuo servire senza protestare e il tuo annullarti per lasciar brillare qualcun altro. Mai qualcun’altra, però, perché le donne devono comunque essere le peggiori nemiche delle altre donne. In effetti non è raro trovare queste espressioni anche nel parlare delle donne, ma questo significa solo una cosa: che non c’è mai stato bisogno di essere maschi per essere maschilisti.
Il pensiero che gli uomini siano non soltanto superiori, ma meritino quella superiorità, è così radicato nella nostra società che ormai appartiene a tutti e a tutte, senza distinzione di genere. È attraverso le parole che il maschilismo ti dimostra quanto è forte nelle piccole cose di ogni giorno. Lo fa in una qualunque scuola media dove due ragazzine di tredici anni litigano dandosi della «troia» a vicenda. Lo fa mentre una donna parcheggia in retromarcia e un gruppo di uomini fermi al crocicchio si dà di gomito aspettando che sbagli. Lo fa quando un commento sul corpo di una collega viene chiamato battuta e lei deve riderne con chi l’ha fatta, altrimenti non ha senso dell’umorismo. Lo fa quando fa bene il suo lavoro e le dicono che ha le palle, quando decide di non fare figli e le dicono che è egoista, ma anche quando li fa e le dicono di pedalare senza perdere mai il
«Sbagliare nome vuol dire sbagliare APPROCCIO MORALE, non capire più la differenza tra il bene che si vorrebbe e il male che si fa»
ritmo, dato che ha voluto la bicicletta. C’è una montagna di parole con cui le donne, in misura superiore a ogni altra categoria discriminata, devono combattere tutti i giorni e a volte la cosa più sensata da fare sembra quella di arrendersi, perché puoi lottare con un intero ufficio di colleghi, con una madre retrograda che pretende di farti ereditare la sua catena e persino con un compagno che fatica a spostarsi il piatto dal tavolo, ma sembra impossibile vincere contro il vocabolario usato da sessanta milioni di persone per dirti che non vali niente. Eppure è lì la battaglia da fare, perché forse non possiamo intervenire sugli snodi dei sistemi della disuguaglianza, ma le parole invece le usiamo tutti.
Fenomeni apparentemente non linguistici come la violenza fisica, la differenza di salario, l’assenza pressoché totale di una medicina di genere, il divario del carico mentale e del lavoro domestico, la discriminazione professionale e mille altri svantaggi non sarebbero comprensibili se non partissimo proprio dalle parole, perché il modo in cui le persone nominano la realtà è anche quello in cui finiscono per abitarla.