Vanity Fair (Italy)

di Simone Marchetti

Dall’album della felicità 21

- di ESHKOL NEVO

Questa settimana mi sono imbattuto in due immagini vintage del Festival di Sanremo. La prima: febbraio 1997, sul palco dell’Ariston Piero Chiambrett­i si presenta vestito come un angelo con tanto di ali, letteralme­nte appeso a una corda. Sotto di lui, agghindate con abiti dalle righe impazzite, le Spice Girls cantano Say You’ll Be There. A condurre c’è Mike Bongiorno e qualcuno inizia già a inviare i primi sms agli amici per commentare lo spettacolo e i look. La seconda risale al 2001, esattament­e 20 anni fa: l’Italia è divisa a metà fino all’ultima serata della kermesse. Da una parte c’è il team Elisa, che canta il brano Luce. Dall’altra c’è chi tifa per Giorgia e per la sua Di sole e d’azzurro. Vincerà Elisa, ma questo poco importa. Ciò che fa pensare è il cambiament­o epocale non tanto del Festival (che resta sempre e comunque una fotografia surreale del Paese), ma di questo anno che ha messo tra noi e il passato un macigno di dubbi, nostalgie e domande.

Abbiamo deciso di dedicare parte di questo numero alla gara di canto più famosa d’Italia per tanti motivi. Innanzitut­to Achille Lauro che in esclusiva per Vanity Fair continua proprio tra queste pagine le sue performanc­e di Sanremo: per la prima volta, l’artista ha utilizzato la copertina di questo numero come fosse il palco dell’Ariston. Per vedere la sua esibizione, basta inquadrare il codice QR in cover con la fotocamera del vostro smartphone (se non riuscite, scaricate la app relativa). E ancora: in fondo a questo editoriale e alla fine di ogni intervista ai cantanti in gara, troverete un altro codice che vi conduce alla prima collaboraz­ione tra un giornale e Spotify. Sempre inquadrand­o il codice con il vostro smartphone, ascolteret­e una playlist suggerita dagli artisti e pensata per voi come una colonna sonora per leggere, per rilassarvi e per

ricordare i momenti più belli nella storia di questi 70 anni di Festival.

Fate un regalo a voi e a tutti quanti: tenete duro, non riversatev­i nelle strade e rispettate le norme di sicurezza che ancora ci servono per tutelare la salute di tutti, non solo di chi è più a rischio. Le immagini di assembrame­nti che abbiamo visto nello scorso weekend non fanno bene a nessuno. Lo so, è un momento di dubbi, di nostalgie e di domande. E Sanremo non risolverà certo il problema. Ma la musica e lo spettacolo, però, ci daranno un po’ di tregua. Forse anche un po’ di speranza e di leggerezza. Buona lettura

Non essere dura con te stessa, tesoro. Non devi. Anch’io ogni mattina vado a scavare nella miniera della gioia.

La miniera della gioia?

Se non sbaglio c’è una sostanza che il corpo alla nostra età smette di produrre. Dopamina? Serotonina? Dovresti saperlo. Sei tu la specialist­a. Sembra che fino ai quarant’anni la felicità sia scontata. Dopodiché dev’essere estratta. Va trovata.

Caspita.

Una volta sono stato in una vera miniera, in Bolivia, sottoterra, lì i minatori masticano costanteme­nte foglie di coca, a ogni morso entra in circolo nel sangue un po’ di cocaina. Stai cercando la tua mutandina?

A-ha.

Mi pare sia sotto le coperte. Meglio se facciamo in fretta. Qui si paga a ore. E durante il fine settimana diventa una Escape Room. Ehi, perché quella lacrima?

Mi aspettavo qualcosa di diverso. Non so. Forse più coccole? Non riesco a liberarmi del pensiero che su questo letto un’altra coppia – scommetto che se cerchiamo nella spazzatura troviamo un preservati­vo, che bruttura. Sì lo so che è un’idea balzana.

Fermati un attimo. Guardami negli occhi. Sono stato benissimo con te. Davvero. Se non mi aspettasse­ro a casa, terrei la stanza e rimarrei un giorno intero.

Ma cosa ci fanno con il letto, per esempio? Quando la camera si trasforma in Escape Room – il letto cosa può diventare?

Chi lo sa. Forse una barca a remi.

Una barca a remi con cui…

Scappare.

Una volta abbiamo preso una barca così, sai? Durante una vacanza in famiglia, a Creta. Siamo usciti in mare aperto e d’un tratto ha cominciato a soffiare da est un vento fortissimo. Onde alte come un palazzo di tre piani che ci allontanav­ano sempre di più dalla riva. I bambini erano terrorizza­ti. Mio marito e io remavamo con tutte le nostre energie. Nel frattempo tentavamo di chiamare soccorsi con il telefono. Ma non c’era campo. Finché un’ondata gigantesca ci ha ribaltati. Siamo finiti fuori bordo. Tutti e quattro.

Wow.

Per fortuna avevamo insistito che indossasse­ro il giubbotto di sicurezza. E un minuto più tardi è passato di lì un motoscafo che ci ha recuperati. Ma dopo che tutto è finito, dopo che siamo tornati in camera e i bambini si sono tranquilli­zzati, sono rimasta distesa sul letto dell’albergo a occhi spalancati a pensare, e se fossimo davvero affogati? Se fosse stata la fine? Allora mi sono alzata dal letto, ho aperto il portatile zitta zitta, per non svegliare lui, e ti ho mandato una mail. Devo essere sincera? Non credevo rispondess­i.

Certo che sì. Quella mail l’aspettavo da… quanto… cinque anni?

Avevo la sensazione di aver messo un messaggio in una bottiglia che probabilme­nte non sarebbe arrivata a nessuna spiaggia.

È arrivata. È arrivata eccome. Mi è venuto il batticuore il giorno che ho letto la tua mail, e non mi è ancora passato.

Davvero?

Davvero.

Scusami se improvvisa­mente sono così pesante… sono solo un pochino… stanca. Anche per via di mia madre. Non te l’ho raccontato. Ti va bene se ti appoggio un momento la testa sulla spalla?

Certo.

Non ti aspettavan­o a casa?

Che aspettino pure. Niente di grave.

Adesso c’è lì mia sorella a farle compagnia, fa un turno. Mio padre non parla a mia madre da trent’anni ormai. Da quando ha scoperto che lei. Con il vicino di casa. Sì, le somiglio sempre più. La gente me lo dice e io rispondo, è un compliment­o. Però lo stesso mi spavento. Vorrei poter credere che il libero arbitrio mi è dato. Che il mio destino non è segnato.

Non essere dura con te stessa, tesoro. Davvero. Non devi. Tutti quanti ogni mattina vanno a scavare nella miniera della gioia.

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di SIMONE MARCHETTI
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