Vanity Fair (Italy)

DON MARCO POZZA

Dio non lo chiama al cellulare, Bergoglio sì. DON MARCO POZZA è il prete (in borghese) più anticonfor­mista d’Italia. Che qui racconta come si fa a perdonare se stessi, spaccare tutto e morire in pace

- di SILVIA BOMBINO foto FRANCESCO MARGUTTI

Il prete

più anticonfor­mista d’Italia

10 aprile 2020, Venerdì Santo, Città del Vaticano. Nelle immagini di piazza San Pietro deserta, che hanno fatto il giro del mondo, Papa Francesco celebra la via Crucis. Davanti a lui ci sono: un detenuto che porta la croce, un magistrato, un poliziotto, medici e infermieri in camice bianco, un prete. A lato, un uomo con le sneakers bianche. «C’è un attimo che non dimentiche­rò mai. Prima di iniziare, eravamo appoggiati al portone, chiuso, della basilica. Guardavamo la piazza davanti a noi, avvolta in un silenzio surreale. A un certo punto lui mi dice: chi lo avrebbe mai detto, un anno fa...».

Chi ascolta l’umana incredulit­à di Bergoglio è Don Marco Pozza, ed è quel signore con le sneakers bianche. È lì perché è il cappellano del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova, colui che ha raccolto le meditazion­i di detenuti, agenti, magistrati e familiari di vittime legati al penitenzia­rio e che verranno lette in mondovisio­ne. Ma è lì soprattutt­o perché è legato da qualche anno al Santo Padre, con cui ha fatto ben tre programmi trasmessi da TV2000, dedicati rispettiva­mente al Padre Nostro, allA’ ve Maria e al Credo, e altrettant­i libri editi da Rizzoli. Eppure la sua faccia è sconosciut­a ai più.

Chi è Marco Pozza, e come è diventato prete?

«La mia è la storia semplice di un ragazzo del Nordest, nato sull’altopiano di Asiago, in un paese piccolo, che era rimasto affascinat­o dal parroco del posto, Don Beppe. Era un prete senza tonaca, ma con un gran sorriso e tanta voglia di fare del bene. Il mio sogno era diventare come lui, avere la mia chiesa, il mio oratorio. Se mi avessero detto scegli un posto dove non lo vuoi fare avrei detto senz’altro: il carcere».

Perché?

«Sono pur nato in Veneto, terra leghista, dove chi sbaglia deve marcire dentro le galere».

Dopo Don Beppe, che cosa è successo?

«Alla fine della quinta elementare, a 10 anni e mezzo, ho chiesto ai miei genitori di poter entrare in seminario. Ero un bambino vivace e che difficilme­nte seguiva le regole, se non fossi diventato prete probabilme­nte sarei comunque finito in galera, ma dall’altra parte, quindi per loro era una proposta allettante. Mi hanno lasciato la libertà di provare, al massimo ne sarei uscito».

Che cosa ricorda del seminario?

«Ho avuto dei problemi, sono stato anche espulso, il mio carattere, dicono in Veneto, “non è farina da fare ostie”. Però in quei 14 anni tanti piccoli dettagli mi hanno fatto capire che da prete sarei stato più felice. La chiamata insomma non è arrivata vedendo la Madonna o Gesù. E non so se morirò prete».

In che senso?

«Mi dispiacere­bbe tantissimo essere certo di morire prete, perché vorrebbe dire che mi sono abituato a questa vita. Invece i motivi per cui questa mattina sono un sacerdote a mezzanotte scadono e domattina ne devo trovare altri, come in tutte le storie d’amore. Ho scelto di essere prete senza snaturare la mia persona: sono disposto a pagare tutto quel che c’è da pagare ma non voglio stravolger­e il mio modo di ragionare, di vestire, di vivere le mie giornate. Se devo morire prete significa che nella vita, al primo tentativo, ho fatto gol, ma mi basta morire intellettu­almente e spiritualm­ente onesto».

In seminario l’hanno riammessa.

«Hanno accettato i miei spigoli. Ho fatto la vita di un ragazzo semplice, normale, che si è innamorato, che ha pensato anche lui di mettere su famiglia, che aveva 7 in condotta, che ha fatto l’università, e a cui la vita ha sorriso finora. Sono andato avanti e ho studiato al liceo classico, poi mi sono laureato in Teologia. A 25 anni sono stato ordinato prete».

Dove ha iniziato a praticare?

«Io, uno di montagna, sono stato mandato in centro a Padova, a fare l’aiuto di un prete di 73 anni. Era un quartiere di gente benestante dove la formalità era importante: ricordo che mi presentai in canonica con i pantaloni corti, una maglietta e il cappellino girato all’indietro. Avevo voglia di fare, spaccare tutto. Quando chiesi che cosa dovevo fare, il parroco mi disse che avrei aiutato alla messa della domenica. E poi? Incalzai. “Vai a vendere le liquirizie al bar”, mi disse. Ho capito subito che non avrebbe funzionato».

Come ha reagito?

«Ho fatto un calcolo: non veniva nessun giovane in chiesa, mentre c’erano 5 mila ragazzi in piazza a bere spritz. Quindi sono andato lì a evangelizz­are all’ora dell’aperitivo. Io sono astemio, tra l’altro. Alla fine circa 400 ragazzi in chiesa sono riuscito a portarli. Gli adulti però me l’hanno fatta pagare, e dopo tre anni sono stato “invitato” a studiare a Roma, per il dottorato in Teologia».

Deluso?

«Sono un appassiona­to ciclista, per cui so che puoi perdere una tappa ma per vincere il Giro d’Italia è la classifica finale che conta».

Come è entrato al Due Palazzi di Padova?

«Mentre studiavo per il dottorato, una domenica mattina un mio caro amico mi ha chiesto di sostituirl­o a una messa. Quando gli ho chiesto dove dovevo andare, mi ha detto: Regina Coeli. Lì è successo che celebrando la messa, quelle centinaia di volti che mi ascoltavan­o da dietro le sbarre mi hanno chiamato. Era come se mi dicessero: ci hai sempre giudicato, siamo dei pezzi di merda, siamo falliti, dobbiamo morire, ma ci hai mai incontrato veramente? A me, che sono uno che si incazza tremendame­nte quando la gente mi giudica senza conoscermi. Me lo ricordo come se fosse ieri: camminavo sul ponte di Castel SantA’ ngelo e ho capito che dovevo accettare la sfida di amare quello che avevo sempre odiato. Così sono andato dal vescovo per chiedergli di mandarmi al carcere di Padova dove sapevo che mancava il prete. All’inizio era sorpreso, ma gli toglievo anche un problema».

Che cosa le ha insegnato il carcere?

«Tre cose, finora: primo, che in carcere non esistono le persone cattive, ma persone che nella vita hanno sbagliato. Secondo, niente panico, devo avere misericord­ia nei miei confronti, io che tutto sommato riesco a perdonare gli altri, ma quasi mai me stesso. Terzo, che la vita reale ha molta fantasia: al netto delle responsabi­lità che hanno per le azioni atroci che hanno commesso, non pensavo ci fosse tanta vita in un luogo che ho sempre collegato alla morte. Nessuno è perduto se trova qualcuno che gli si siede vicino e scommette su di lui».

Partecipa a conferenze in tutt’Italia, in particolar modo presso scuole. Va sempre in borghese?

«Mai avuta la divisa da prete, un po’ perché il famoso Don Beppe che mi affascinav­a da piccolo non ce l’aveva. Un po’ perché ho sempre avuto problemi con l’autorità e le divise, che segnalano l’importanza di un ruolo ma anche allontanan­o: a me piace giocarmela alla pari».

Come ha conosciuto Papa Francesco?

«Il 6 novembre 2016 era la domenica del Giubileo dei carcerati, perciò avevo portato a Roma una cinquantin­a di detenuti. A un certo punto, per strada, mi suona il cellulare. Rispondo e sento una voce che dice: “Ciao, sono Papa Francesco”. Ovviamente ho pensato subito che fosse lo scherzo di qualche mio amico e ho buttato giù».

Ha buttato giù il telefono al Papa?

«Esatto, dopo poco però per fortuna ha richiamato: “Deve essere caduta la linea”, ha detto. Mi ha chiesto di incontrare i detenuti a Casa Santa Marta. Questo mi ha fatto capire che mentre sono molto preparato al tragico della vita, non sono pronto alla bellezza. Quel giorno il Papa mi ha dato una grande lezione: il modo più bello che Dio ha, per farti capire che ti ama, è farsi trovare sotto casa. Gesù non aveva il cellulare, ma trovava le persone per strada. Lì è nata la nostra storia, che mi ha fatto sapere che dentro la Chiesa c’è qualcuno che mi vuole bene. Mi ha salutato mettendomi una mano sulla spalla: “Ricordati che non sei più solo, hai trovato un papà”».

Avete iniziato a collaborar­e subito?

«No. Io dovevo fare dei programmi

«In carcere ho imparato che NESSUNO È PERDUTO se trova qualcuno che gli si siede vicino e scommette su di lui»

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Marco Pozza, 41 anni, dottore in Teologia e cappellano del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova.
SENZA COLLARE Marco Pozza, 41 anni, dottore in Teologia e cappellano del carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova.

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