Il CORAGGIO di diventare padre
Daniel Munari è un papà single. Non perché sia separato, ma perché ha fatto tutto da solo, o quasi. Omosessuale con un grande desiderio di paternità, ha dribblato le leggi italiane optando per la GPA, il cosiddetto utero in affitto. «Ho provato con adozione e affido: fuori discussione in Italia per un uomo non sposato. Allora sono volato in Ucraina. Mio figlio Niccolò è nato nel 2012 e mi ha regalato l’amore incondizionato, la completezza di una famiglia. È stato un inferno burocratico e legale, con tanto di indagine per falsa certificazione, ma 3 anni fa tutto si è risolto. La sua mamma? Mio figlio ha una foto sul comodino, ogni tanto le telefoniamo. È una vedova con una figlia, cercavo una donna che non lo facesse solo per denaro, ma che avesse una storia. Come noi».
«Il desiderio di essere genitore non può e non deve dipendere dalla SESSUALITË di una persona»
sacrosanti, all’epoca considerati inaccettabili. Come Maria Silvia Fiengo, tra le fondatrici dell’Associazione Famiglie Arcobaleno (famigliearcobaleno. org), madre, con la sua compagna Francesca Pardi, di 4 figli: una ragazza nata nel 1992 e due gemelli nati nel 2006 da lei, l’ultimo nato nel 2009 da Francesca. Come? Con un viaggio. Partito nel ’98 dalla decisione comune di provarci, proseguito con i weekend in Olanda, Spagna, Danimarca e concluso con le gravidanze che hanno dato vita alla più arcobaleno di tutte le famiglie, un gruppo affiatato che dimostra quanto l’ingrediente primario di un nucleo familiare sia l’amore. «Negli anni Duemila», racconta Maria Silvia, «le coppie lesbiche in Italia erano prese di mira. Non per forza con cattiveria, piuttosto con curiosità. L’omofobia nel nostro Paese resiste, anche se sotterranea. La comunità LGBT è una minoranza, ma non culturale né economica. Questo ha reso possibile il sorgere di movimenti che portassero avanti la lotta per i diritti con credibilità, anche se con fatica. Famiglie Arcobaleno è un progetto che ha preso il via nel 2005 con la volontà, tra l’altro, di chiarire tanti dubbi. Per esempio, la confusione tra donatore e papà. Volevamo dare un volto politico alle nostre battaglie, erano gli albori di un percorso che ha dato risultati importanti. Anche Regioni e Comuni giocano un ruolo: alcuni sindaci hanno scelto di riconoscere l’omogenitorialità e iscrivere i bambini nati da coppie omosessuali come figli di entrambi, altri hanno costretto le famiglie a un iter burocratico più lungo e complicato. L’importante è creare precedenti che portino a semplificare le scelte di ogni tipo di genitore, a prescindere dalla sua sessualità». Per ogni coppia il progetto figlio è diverso. Si comincia dalla fertilità: per i giovani le tecniche sono più naturali, meno invasive, con maggior percentuale di riuscita. «Quando rimasi incinta della mia prima figlia avevo 32 anni, ricordo che fu un’avventura, saltavamo sul treno per Amsterdam come per andare in vacanza. Ci sono voluti 8 tentativi, ma non lo abbiamo vissuto come un problema, anzi». La scelta del padre biologico è un punto fondamentale. Oltre alle «banche», con anonimato garantito o con possibilità di conoscere l’identità del donatore, ci sono i «donatori fai da te», uomini che si propongono privatamente con tanto di esami come la spermografia. Ma è sempre meglio affidarsi alle cliniche specializzate. Oppure, in qualche caso, si può pensare di scegliere una persona cara, pur non avendo con lui un rapporto fisico. È il caso di L.F., 35 anni, che ha dato un padre in carne e ossa a sua figlia: l’amico del cuore, l’uomo che per lei aveva tutte le caratteristiche giuste anche senza essere il suo fidanzato. «Mi ha fatto un dono speciale, unico. Non potevo sperare di meglio. Per me diventare mamma ha significato la fine della relazione con la mia compagna. Non ho rimpianti, oggi abbiamo un rapporto affettivo stabile anche se non stiamo più insieme. Il mio fortissimo desiderio di maternità ha prevalso sulla coppia, lei non sentiva la stessa esigenza e ci siamo allontanate. Ma quando è nata mia figlia, non ha voluto rinunciare a far parte del suo mondo». L’aspetto sociale si innesta su quello psicologico: «La decisione di intraprendere un percorso di “maternità condivisa” per una coppia omosessuale», precisa la dottoressa Barbara Funaro, psicologa, psicoterapeuta e sessuologa, «è una sfida, soprattutto a livello sociale. Gli ostacoli culturali possono influenzare notevolmente le decisioni, mentre la gravidanza cambia l’espressività dei loro desideri. L’arrivo di un figlio è sempre un evento di grande impatto psicologico nella coppia, ma quando nel desiderio di genitorialità si insinuano paure e ansie legate al contesto sociale, questo impatto può risultare più duro».
La storia di A. e P. ha un’altra sfaccettatura: volevano diventare mamme, ma era A. che sperava di affrontare la gravidanza. Alla soglia dei 40 anni, dopo una prova senza successo, ha mollato. Allora ci ha provato P., riuscendo a rimanere incinta al secondo tentativo, e il figlio o la figlia nascerà fra pochi mesi. «La prima volta siamo andate in Spagna, perché era più vicina e più abbordabile. Bisogna calcolare che, oltre alle spese per la trasferta, ci sono le cure, qualche migliaio di euro fra analisi, visite ginecologiche, medicine eccetera. Ci sono Paesi dell’Est Europa che offrono pacchetti con più tentativi. I colloqui preliminari si possono fare via internet, pagando una quota, per verificare se si è idonei. Un primo esborso di circa 500 euro. Le cliniche generalmente sconsigliano il tentativo dopo una certa età, perché le percentuali di successo si abbassano drasticamente. In totale, si possono spendere anche più di 10 mila euro. In molti istituti ogni voce ha una tariffa: più opzioni aggiungi, più spendi. Informazioni sul donatore, sulla famiglia, gli studi, la motilità dei suoi spermatozoi, foto dei suoi parenti, pagelle… Noi abbiamo scelto solo le caratteristiche genetiche, preferiamo non sapere altro».