LORENZO VIOTTI
Lontano dal cliché di direttore d’orchestra
Achi pensa che la musica classica sia appannaggio esclusivo di vecchi, polverosi e scricchiolanti nostalgici, Lorenzo Viotti può far cambiare idea con una semplice scrollata del suo feed instagram. Sull’account del maestro svizzero, fresco di insediamento alla direzione della Netherlands Philharmonic Orchestra e della Dutch National Opera, la racchetta da tennis si alterna alla bacchetta. Entrambe abilissime nel far guizzare i suoi muscoli. E anche il ciuffo dai riflessi biondi sembra nato per ondeggiare con vigore sul podio.
Con lei non si può non parlare di cliché. E del loro azzeramento. Il mondo della musica classica è così conservatore come sembra?
«Può sembrare un po’ old fashion, sì. Lo sforzo da fare è quello di trasmettere quest’arte ai più giovani. Tutto, oggi, è veloce, superficiale, piatto. Noi, invece, parliamo di profondità, vulnerabilità, emozioni. Dobbiamo imparare a usare la tecnologia per condividere l’arte nel modo più semplice possibile».
Ma la musica classica non lo è, semplice.
«La verità è che non devi per forza conoscerla, per apprezzarla. Così come non devi essere uno chef tre stelle per gustare il buon cibo. O Ronaldo per amare il calcio. Forse, mentre ascolti l’opera non puoi chiacchierare o bere una birra, d’accordo. Ma può essere comunque molto divertente. Basta aiutare la gente a trovare il giusto approccio».
Lei pensa di farlo?
«A Lisbona, dove sono direttore dell’Orchestra Gulbenkian, c’è una fila di 2.000 persone un’ora prima delle prove generali e il 70% di loro sono under 35. Solo perché ho preso un microfono in mano e ho raccontato cosa stessimo facendo. Il direttore deve essere un ponte tra il palcoscenico e il pubblico».
Come avvicinarsi all’opera?
«Senza pregiudizi. I ragazzi della mia generazione sono incapaci di stare fermi due ore senza il loro smartphone per “ascoltare” qualcosa, e non semplicemente “sentirla”. La musica, oggi, è vissuta come momento di fuga, modo per rilassarsi, o fonte di energia. Tutto questo c’è anche nell’opera».
Qual è la regola più importante nel mondo della musica classica?
«Questo mondo, in realtà, non ne impone di regole. E se lo fa, sbaglia. Chi dice che per fare il direttore d’orchestra ci si debba dimenare per impressionare la galleria? Questa non è una regola, è solo show off. Io seguo le mie, di regole: la disciplina, l’autenticità nel servire la partitura musicale, la sincerità col pubblico».
C’è un luogo comune della musica classica che le piace?
«Il rispetto per il silenzio. Il rispetto, in genere. Non serve lo smoking per andare a un concerto. Ma non ci si va nemmeno con la maglietta della squadra di calcio».
A proposito, cosa hanno in comune la musica classica e lo sport?
«Siamo atleti, in fondo, dobbiamo prenderci cura del nostro corpo. L’alimentazione è fondamentale. E poi c’è lo spirito di competizione. Quella con noi stessi, per esibirci al meglio. Il nostro trofeo sono le lacrime negli occhi del pubblico».
Si sente un artista?
«No, credo di essere un buon servitore di quest’arte. Gli artisti creano, partendo dal nulla. Io, invece, lavoro come uno psicologo».
E quando ha capito di avere questo talento?
«Non direi talento. Direi dono. O forse qualcosa che c’è nel mio sangue, e che c’era nel sangue dei miei genitori. La prima volta che mi sono trovato di fronte a dei musicisti per sostituire il direttore ero solo un percussionista, ma ho capito subito che appartenevo a quella cosa».
Non ha l’aspetto del classico direttore d’orchestra, eppure è rassicurante. È mai stato ribelle?
«Non ho piercing o capelli strani, no. Ma se ribelle è chi dice basta, per esempio, alla parola “tradizione”, allora sì, lo sono. Non stimo le persone che seguono come pecore gli esempi e le regole di altri senza chiedersi ogni giorno perché lo facciano. La tradizione va rispettata, ma non necessariamente ripetuta».
Suo padre Marcello, grande direttore, non ha potuto vedere chi è lei oggi. Cosa crede le direbbe?
«Credo che non parleremmo di musica classica».
E di cosa?
«Di vita. La prima volta che hai una ragazza, che fai l’amore, come ci si rade: credo siano queste le cose di cui parli con tuo padre. Momenti che io non ho potuto vivere».
C’è qualcosa, della vita, che gli vorrebbe chiedere?
«Molte. Ma le tengo per me».
Che rapporto ha con l’autorità?
«Da direttore, penso che non ce l’hai se urli, ma dimostrando di essere preparato. I veri leader non devono lavorare sull’autorità, perché ci sono nati, leader. Se voglio che qualcuno creda in ciò che io credo... be’, si fidi, so come fare a convincerlo».
Chi è il più grande leader che ha mai conosciuto?
«Mia madre. E non ha mai dovuto alzare la voce: è tutta questione di psicologia ed empatia. E amore, e fiducia».
Esiste il divismo nella musica classica? Si sente una star?
«Oh no, proprio no. Pavarotti lo era».
Non ha groupies?
«Le mie groupies non sono esattamente sedicenni. Non saltano sul palco».
Quanto l’ha aiutata il suo aspetto?
«Per nulla. C’è sempre qualcuno più giovane e più bello di te. Ma non serve a niente, se non hai davvero qualcosa da dire. Soprattutto all’inizio, quando ero più insicuro, ho fatto di tutto per non dare a nessuno la possibilità di usare la mia bellezza contro di me. Ma, ora, sono arrivato al punto di non dover dimostrare più niente, nemmeno a me stesso».
In un’intervista di circa un anno fa ha raccontato di essere single. Sembrava scherzasse.
«Non era uno scherzo».
Oggi che cosa dice?
«Che sono ancora single».
È un messaggio?
«Lo interpreti come vuole. Dico solo che la mia risposta è: sono single».