QUELLO CHE DI BELLO VERRË
Accanto alla narrazione dei giovani di oggi come sdraiati e svogliati, ne esiste un’altra: quella di ragazzi che, con il loro mix di passione e determinazione, illuminano il futuro del nostro Paese oltre la pandemia. È il caso dei protagonisti della COMPAGNIA DEL CIGNO di cui andrà in onda, a breve, la seconda stagione
Ècome un racconto.
Tutto comincia con una telefonata in piena notte da Merano a Roma nel 2016. A un capo del telefono (quello di Merano) ci sono io, all’altro (quello della Capitale) risponde Francesca Cima, la mia produttrice, assonnata ma abituata (diciamo rassegnata) alle mie chiamate inopportune. Lei dice pronto, e io le dico: senti ho capito, so di cosa voglio scrivere, cosa voglio raccontare, su cosa voglio fare una serie, voglio raccontare i ragazzi musicisti, quelli che studiano al conservatorio e dedicano tutta la vita alla musica, e lo fanno praticamente da quando sono bambini, è una cosa meravigliosa, lo facciamo con musicisti veri però, non con attori, perché se parliamo di talento è assolutamente necessario che mostriamo il talento vero.
Francesca mi chiede di ripetere più lentamente, per cortesia.
Ero appena uscito dalla serata finale del premio letterario Merano Europa, di cui ero in giuria. Nell’intervallo avevo assistito alla performance di un quartetto d’archi composto da adolescenti. Mentre li ascoltavo avevo messo insieme tutto: il mio desiderio di parlare ancora dei ragazzi (e ai ragazzi) dopo avere trattato il tema del bullismo nel libro, e poi film, Un bacio, i ricordi di un amico d’adolescenza, Sergio, che nella casa al mare di fronte alla mia in pieno agosto si alzava alle sette del mattino per esercitarsi con il violino, lo stesso Sergio che non poteva guidare la Vespa, perché con il cambio manuale gli si ingrossava il polso. Ancora, Riccardo Muti, compagno di classe di mio zio al liceo, e i mitologici racconti su quanto duramente studiasse per frequentare il classico e il conservatorio. E poi tutti i ragazzi che avevo incontrato nelle scuole negli anni precedenti, la meraviglia che mi avevano suscitato e l’insofferenza che sempre provavo quando sentivo parlare di loro come di una generazione di ragazze e ragazzi svogliati, apatici, indifferenti, sempre buttati su un divano, quando sapevo bene, lo avevo visto, che non era così. Quella notte avevo deciso, e da lì non mi sono più fermato. E in questo modo sono caduto nella rete di questi giovani, meravigliosi musicisti.
Per trovare i protagonisti della Compagnia del Cigno ho incontrato quasi tremila ragazzi, nei conservatori e nelle scuole di musica di tutta Italia. Io pensavo (di me stesso) di avere avuto una vocazione precoce, perché per gioco alle elementari avevo scritto un raccontino giallo, e mi imbattevo con mio grande scorno, in ragazzi che a quattro anni avevano scelto, non si sa perché o richiamati da cosa, di farsi regalare uno strumento dai genitori, spesso in famiglie nelle quali di musica classica non si parlava nemmeno. Conservo ancora le riprese fatte a centinaia di ragazzi in cui mi raccontano il loro rapporto con la musica, mi parlano di come suonare per ore il loro strumento rappresenti una valvola di sfogo, una fuga
dalla realtà, un mezzo di risoluzione dei conflitti con i genitori, una consolazione dai tradimenti degli amici o della persona amata, e in definitiva immergersi nel loro personale e particolare mondo segreto. Ho scoperto che solo in piccola parte questi ragazzi, che hanno dedicato alla musica gli anni della loro infanzia e tutti quelli successivi, vengono da famiglie in cui lo studio di uno strumento o l’ascolto della musica classica costituiscono un’abitudine. Invece, almeno un terzo dei musicisti che ho incontrato hanno iniziato a suonare per risolvere dei problemi comportamentali, o hanno cominciato perché sono stati chiamati in qualche modo dalla musica, attratti dal suono di uno strumento, a volte dalla bellezza di una tastiera. C’è chi ha iniziato a suonare perché ha visto un cartone animato da bambino nel quale una scimmietta suonava un violino e ha immediatamente detto con una sicurezza impressionante: «Voglio anche io quello».
Il mio viaggio con loro è stato stupefacente, e ha reso ancora più forte la mia insofferenza per tutta una generazione di adulti che non vede nei giovani tanta passione, tanto sacrificio, tanto impegno. I ragazzi che ho incontrato studiano per anni, iniziando da piccolissimi, non per intraprendere una carriera da solista, ma spesso per fare parte di un gruppo, di un’orchestra, di un insieme di persone che hanno una cosa in comune: sognano lo stesso sogno. Scrivere con Monica Rametta le loro storie e dirigere due stagioni della Compagnia del Cigno per me ha significato soprattutto questo: rendere omaggio al loro impegno, di fronte al quale restavo e resto ancora ammirato. Un impegno, una costanza, una tenacia che mi infondeva e mi infonde una fiducia senza limiti nel futuro. Ho incontrato tanti ragazzi, e fra loro ho visto i miei sette protagonisti, Chiara Pia, la violoncellista di Trani che al provino si è messa a cantare True Colors. Hildegard, il violino di Milano che doveva recitare la parte di una ragazza ipovedente e lo ha fatto da subito con una naturalezza sorprendente. Ario che a quindici anni già si esibiva in concerti col pianoforte in Germania. Fotinì, che, mentre imparava a fare l’attrice, per dieci anni aveva studiato musica. Emanuele, che dalla Sicilia a quattordici anni si era trasferito da solo a Milano per studiare al conservatorio Verdi. Leonardo, che tirava fuori la stessa passione quando suonava il violino, quando cantava a cappella i Beatles e quando scriveva le sue poesie. Francesco, che a Firenze subiva insulti da tutti i vicini perché pestava la batteria venti ore al giorno, e più volentieri di notte. Sono i miei ragazzi, ma sono una rappresentanza di una generazione che esiste e di cui si parla poco, perché non fa notizia, anzi perché spesso non cerca affatto di fare notizia. Ragazzi ambiziosi, certo, ma la cui ambizione non sta nel voler vedere il proprio nome a caratteri cubitali su un manifesto: sta nel voler fare musica per tutta la vita, inseguendo la perfezione.
L’orchestra è il luogo in cui questi carbonari si ritrovano per condividere lo stesso sogno. I maestri, e i più bravi sono i meno paternalistici, quelli che non fanno sconti, sono le loro guide nel mondo. Sono come delle star per loro, dei modelli altissimi: persone che incarnano il loro
stesso sogno, quello di poter vivere facendo musica.
Dopo la messa in onda della prima stagione della Compagnia del Cigno, i concerti degli studenti del conservatorio di Milano hanno registrato il tutto esaurito (per una delle esibizioni hanno dovuto chiamare i pompieri per poter aggiungere sedie), le domande di ammissione agli studi si sono moltiplicate. I ragazzi chiedevano ai protagonisti sui social: mi è piaciuta questa canzone di Brahms che avete suonato nella puntata, me ne consiglieresti un’altra? È una cosa di cui vado fiero. Poi è scoppiata la pandemia. Conosciamo il male che ha fatto, a ciascuno di noi. Sappiamo sulla nostra pelle che ci ha portato via persone e cose, e vita. A questi ragazzi ha tolto tanto. Ha tolto il pubblico che andava ad ascoltarli ai concerti, ha tolto, come a tutti i ragazzi che studiano, la possibilità di un confronto dal vivo con i loro maestri. La gioia di cantare in un coro, o di lavorare fianco a fianco in un’orchestra. Ma la loro musica non si è fermata e non si ferma. Hanno continuato a studiare e a suonare, come una forma di resistenza, come per mantenere una promessa. Una volta di più, hanno dimostrato che fare musica non significava per loro solo esibirsi, ma esprimere una parte dell’esperienza umana, testimoniare il loro passaggio su questa Terra, connettersi agli altri. Nella sofferenza e nell’isolamento hanno continuato a trovare nella musica il loro mondo incantato, e la lingua con cui parlare agli altri.
Non è retorico dire che questi ragazzi sono il nostro futuro: è un puro dato anagrafico. E la loro capacità di non arrendersi, di non rinunciare al sogno, è commovente. Soprattutto se pensiamo a quanto siamo stati bravi noi adulti a scoraggiarli in tutti i modi possibili, a presentargli un mondo in cui chi è più furbo raggiunge il traguardo per primo.
Ma loro in qualche modo la sanno più lunga di noi, e hanno rifiutato questi modelli. Hanno capito, forse osservando le nostre insoddisfazioni, che non ci sono mai garanzie alla felicità, ma che fare qualcosa che ti piace, studiare, lottare e conquistarsi la possibilità di lavorare facendo ciò che ti piace, se non basta a renderti felice, sicuramente ti aiuta a non ritrovarti infelice e frustrato.
In questi anni di lavoro con loro, con tutti i ragazzi che ho incontrato, con la Compagnia del Cigno, con i nuovi musicisti che si sono aggiunti al gruppo iniziale, con le orchestre con cui abbiamo lavorato, questa convinzione era palpabile, era la luce che brillava nei loro occhi. E nonostante tutto quello che abbiamo attraversato e stiamo attraversando, quella luce è ancora lì, è negli occhi dei ragazzi e delle ragazze quando li vedete suonare e cantare, passa nella musica che suonano e arriva fino a noi. Ci parla di quello che di bello verrà, e di tutto quello che possiamo ancora fare, mentre aspettiamo quello che verrà.
Ci parla, alla fine, di come possiamo diventare migliori: attraverso la conoscenza e la condivisione, l’amore e la passione. 9 MINUTI ➡ TEMPO DI LETTURA: