JAVIER GOYENECHE
EcoAlf, brand di moda sostenibile
Che il mare sia «una terra di nessuno», Javier Goyeneche l’ha capito la prima volta che è salito su un peschereccio. Era il 2014 e, a quel tempo, si occupava di riciclare vari materiali, tra cui reti da pesca dismesse, per ricavare giacche, zaini e altri accessori firmati EcoAlf, il brand di moda sostenibile che aveva fondato qualche anno prima. Un giorno, uno dei pescatori del porto di Vila Joiosa, ad Alicante, l’ha invitato a bordo. Javier ha accettato e la sua vita è cambiata. Insieme ai riti e alle fatiche della pesca, insieme alle rughe di salsedine e agli sguardi leali, ha visto dell’altro: un cumulo di rifiuti (una media di 3,5 chili per imbarcazione) intrappolati nelle reti accanto ai pesci. Al silenzio assordante è seguita la voglia di fare. Allo shock, l’intuizione: al pari del cotone, degli pneumatici, delle bottiglie in plastica, dei fondi di caffè che già riciclava, anche quell’immondizia poteva essere trasformata in filamenti con cui creare capi e accessori. Il progetto Upcycling the Oceans, fiore all’occhiello di EcoAlf, è nato così.
Oggi contate sull’appoggio di quasi 4 mila pescatori che, a titolo gratuito, raccolgono i rifiuti e li ripongono nei container per lo smistamento.
«Siamo in fase di espansione, ma all’inizio non è stato facile convincere gli azionisti: temevano che fosse un’impresa impossibile, che i rifiuti marini fossero troppo danneggiati dall’acqua, dal sale e dal sole».
E non è così?
«Sì, ma sono comunque recuperabili. Occorrono solo più passaggi per ottenere un filato di qualità».
Come li ha convinti?
«Ho messo in piedi la EcoAlf Foundation, con cui finanziare l’iniziativa».
I fondi da dove arrivano?
«In parte, da realtà più grandi che credono nel progetto, come la fondazione di Henry Pincus a New York. In parte, dalla vendita di materie prime che non usiamo, come il vetro e l’alluminio. Inoltre, ci avvaliamo di partnership cruciali: in Spagna con EcoEmbess, la società che si occupa dello smaltimento dei rifiuti, in Italia con Conad...».
In quali porti italiani siete attivi?
«Per ora a Civitavecchia, ma ce ne sono altri sei pronti a partire. Siamo in attesa dei permessi. A volte la burocrazia frena anche il più audace degli entusiasmi».
Perché i pescatori lo sono, entusiasti dico.
«Altroché. Sono i primi a rendersi conto della portata del problema e della totale assenza di legislazione a riguardo».
Cosa dovrebbe fare la politica?
«Velocizzarsi. Non si possono fissare gli obiettivi ambientali da raggiungere nel 2050. I prossimi 10 anni saranno cruciali per le sorti dell’ecosistema. Inoltre, bisogna investire sulla scolarizzazione per educare le nuove generazioni alla sostenibilità. Spesso ci preoccupiamo di quale pianeta lasceremo ai nostri figli, ma dobbiamo egualmente preoccuparci di quali figli lasceremo al pianeta».
I giovanissimi, però, sembrano tra i più attenti alla natura. Basti pensare al fenomeno dei Fridays for Future di Greta Thunberg.
«In teoria sì, ma non sempre le loro azioni sono coerenti con ciò in cui credono».
Vale a dire?
«Ho tenuto varie conferenze nelle università e spesso vedo ragazzi sedicenti ambientalisti, che poi continuano a comprare T-shirt da 5 euro l’una».
Sbagliano a risparmiare?
«Sbagliano a sottomettersi al modello consumistico della moda usa-e-getta. Sarebbe più opportuno che acquistassero meno, e meglio. Puntando su capi evergreen».
Come i vostri, per esempio.
«Be’ sì: EcoAlf adotta volutamente un design senza tempo in modo che gli abiti durino più a lungo dei trend del momento. Non solo: noi non facciamo sconti né promozioni, non sovra-produciamo, non teniamo merce extra in stoccaggio. Tutto questo ha un costo: perdiamo tra il 15 e il 20% del venduto. Ma almeno rimaniamo coerenti. Non solo: non partecipiamo ai Black Fridays».
Perché?
«Sa qual è stata la percentuale di reso globale l’ultima volta? Il 62%. Un disastro in termini di emissioni di anidride carbonica, spreco di packaging e di risorse per spostare i prodotti. Il modello di business fondato sull’usa-e-getta non è sostenibile».
Quello di EcoAlf, invece, lo è?
«Non completamente, nessuno è perfetto. Noi abbiamo due questioni che ci stanno a cuore. La prima, garantire la circolarità dei prodotti. Esempio: all’inizio creavamo T-shirt per metà in cotone e per metà in poliestere, poi ci siamo resi conto che era più difficile riciclarle. Ora tendiamo a usare un unico filamento per ogni capo».
La seconda questione?
«Non basta ripulire gli oceani: bisogna fare in modo che sempre meno rifiuti arrivino in mare.
Il 75% giunge per via fluviale, così l’anno scorso abbiamo iniziato un progetto di depurazione dei fiumi in collaborazione con Biotherm. Siamo partiti dal Río Jarama che costeggia Madrid: ogni venerdì, i nostri dipendenti possono decidere se venire in ufficio o andare a pulire il fiume. Ma anche questo non basta».
Lo step successivo?
«Ridurre drasticamente l’emissione di micro-filamenti inquinanti. La gente è convinta che solo le fibre sintetiche li producano, ma non è così: vengono generati anche dal cotone, dalla lana, dal cachemire, soprattutto se tinteggiati con prodotti chimici. Noi stiamo studiando un tipo di filamento che non produce microparticelle. Ci siamo quasi, lo lanceremo fra tre mesi. Contemporaneamente, lavoriamo con le aziende di elettrodomestici per installare nelle lavatrici filtri che le catturino».
È per tutte queste iniziative che, l’anno scorso, la fondazione Schwab, in collaborazione con il World Economic Forum, l’ha insignita del «Social Innovator Award»?
«Credo di sì. Hanno capito che EcoAlf non si limita ad avvertire che il mondo ha un problema, ma diventa parte della soluzione. Andiamo oltre lo story-telling, il raccontare una storia: noi, la storia, la facciamo». ➡ TEMPO DI LETTURA: 5 MINUTI