TRASPARENZA
Per il futuro di una moda più sostenibile
Il pianeta sta soffrendo. Per anni, si è acquistato troppo e usato sempre meno. Gli stock di magazzino stanno esplodendo: è necessaria subito una rivoluzione per poter avere un’industria della moda nettamente più responsabile entro nove anni». Francesca Romana Rinaldi, docente dell’Università Bocconi di Milano e autrice del libro Fashion Industry 2030 (vedi a destra), ha le idee chiare. «Una moda più sostenibile è una conditio sine qua non e non solo perché ce lo impone l’ambiente ma perché è una richiesta sempre più urgente da parte dei consumatori stessi». E abbiamo meno di un decennio per raggiungere, anche in questo settore, gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, un programma sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’Onu. Programma all’interno del quale si inserisce il Fashion Pact, presentato in chiusura del vertice del G7 a Biarritz, nel 2019. In pratica, si tratta di una coalizione di aziende internazionali leader del settore moda e tessile, insieme a fornitori e distributori, tutti impegnati al raggiungimento di una serie di obiettivi condivisi e focalizzati su tre aree principali: arrestare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani. «Rispetto al passato, oggi quasi tutte le aziende del settore, anche in virtù delle direttive europee, hanno avviato un percorso di sostenibilità e questo è un grande passo avanti. C’è però anche un lato negativo della medaglia: la sostenibilità è diventata cool e, quindi, il rischio di greenwashing – cioè della “spennellata verde” che non prevede un reale ripensamento dei processi aziendali – è ancora più elevato. Dal mio punto di vista, ci sono dei criteri per valutare la strategia di un brand. Innanzitutto, l’approccio al cambiamento deve essere olistico: la sostenibilità
ambientale non può prescindere da quella sociale né dall’instaurare relazioni con associazioni, ong, istituzioni, università. Il metodo scientifico per la misurazione dei risultati è essenziale. Ma, soprattutto, bisogna partire dalla trasparenza e dalla tracciabilità della filiera come strumenti per dare sostanza al concetto di sostenibilità. Qui c’è ancora una grave lacuna normativa, nel senso che mancano le leggi che regolamentano come tracciare il percorso di un prodotto e come raccontarlo all’esterno. Un vuoto che consente a certe aziende di approfittare della situazione, spacciandosi per sostenibili anche se non lo sono realmente».
Un’azione importante in questa direzione la svolge il progetto Enhancing Transparency and Traceability for More Sustainable Value Chains in the Garment and Footwear Sector di UNECE (United Nations Economic Commission for Europe), di cui Rinaldi fa parte: «Abbiamo rivolto un invito alle imprese del settore tessile, abbigliamento e calzature ad aumentare la collaborazione tra i diversi attori della filiera. Attualmente, la tracciabilità arriva al livello di fornitori più vicini all’impresa. Sono rarissime le società che riescono a risalire ai produttori delle materie prime. Come si fa allora ad avere gli strumenti per dichiararsi con certezza sostenibili? Un altro caso ancora è quello delle maison del lusso che possono avere timore a condividere il proprio know-how, con il rischio di essere copiate». Il percorso verso la sostenibilità, insomma, è complicato ma non impossibile. Un ruolo fondamentale è giocato naturalmente dai governi, che «sono chiamati a dare maggiori certezze ai consumatori e ai diversi attori della filiera». Ma anche a risolvere un’altra annosa questione: quella dei costi, perché una moda responsabile è indubbiamente più onerosa per tutti, sia per chi la produce, sia per chi la compra. «Una volta definito uno standard base di trasparenza e tracciabilità, si potranno stabilire anche dei criteri certi per incentivare le aziende di abbigliamento, come già accade per altri settori, tipo quello della mobilità. Faccio qualche esempio: supportare l’innovazione tecnologica, creare infrastrutture, definire progetti pilota o appalti
pubblici sostenibili, ma anche dare maggiore visibilità alle aziende virtuose. Per contro, però, dovremo riconsiderare anche il significato di qualità e il costo della stessa, educando il consumatore fin dalla più tenera età. Dovremo cambiare il nostro approccio all’acquisto: comprare meno ma meglio, potendo contare, tra l’altro, su un’offerta sempre più personalizzata, on-demand e inclusiva».
Nella nuova visione – e ciò vale soprattutto per il Made in Italy – «qualità significa fornire garanzie sull’utilizzo di materie prime e processi produttivi rispettosi dell’ambiente e delle persone. Qualità, inoltre, include il concetto di durevolezza: le aziende responsabili hanno il dovere di estendere la vita dei propri prodotti anche offrendo servizi di riparazione e consigli per la manutenzione, fino ad arrivare a un vero e proprio consumo collaborativo, che prevede anche l’affitto e la ricommercializzazione dei capi dismessi. La nuova sfida è la circolarità della moda». 7 MINUTI ➡ TEMPO DI LETTURA: