Vanity Fair (Italy)

Insieme, per fermare l’odio

- di SIMONE MARCHETTI Buona lettura

Ibambini si devono vestire d’azzurro. Le bambine di rosa. Ai primi s’insegna a giocare a calcio. Alle seconde con le bambole. I futuri maschietti inseguiran­no la forza, si vestiranno coi pantaloni e da grandi indosseran­no la cravatta. Le femmine, invece, sceglieran­no la sensibilit­à, le gonne, i trucchi e i gioielli. Società, educazione, politica, lavoro, cinema, television­e, persino le favole ci hanno insegnato fin da piccoli a immaginare e costruire un mondo ben diviso in due: da una parte gli uomini vestiti d’azzurro, dall’altra le donne agghindate di rosa. Con tutto quel che ne consegue. È un ordine o una gabbia? È una convenzion­e innocua, tradiziona­le, qualcuno dirà «naturale», oppure qualcosa che limita, che soffoca, che fa male e a volte persino uccide?

Un episodio, recentissi­mo, uno tra i tanti – anzi no, tantissimi – aiuta a capire. Castelfior­entino, provincia di Firenze. Malika ha 22 anni. Un giorno scrive una lettera ai genitori per spiegare loro che ama una ragazza. «Meglio una figlia drogata che lesbica», è la risposta della madre che, insieme al padre, cambia la serratura della porta dell’appartamen­to per impedirle di tornare a casa.

La storia di Malika non è isolata e nemmeno l’ultima: basta visitare, per esempio, il sito omofobia.org e cliccare su «Elenco degli episodi» per consultare il bollettino quotidiano dei casi di violenza omofobica e transfobic­a che si verificano quotidiana­mente in Italia. Ma che c’entra parlare di tutto questo durante la pandemia, in un momento in cui le persone ancora si ammalano, muoiono e perdono il lavoro?

Non c’è mai un momento buono per parlare dei diritti e del diritto di essere diversi dagli altri. È sempre il momento giusto. Un Paese civile, un Paese democratic­o tutela i diritti delle minoranze e dei più deboli, perché farlo non significa indebolire le maggioranz­e, ma rafforzare tutti. È il motivo per cui, attraverso questa copertina di Vanity Fair, abbiamo deciso di scendere in campo a favore del Ddl Zan, il disegno di legge che tutela le persone contro l’odio verso gli omosessual­i, i trans, le donne e i disabili. A nostro parere, è un’occasione fondamenta­le per l’Italia di educare al rispetto e alla libertà, e per diventare finalmente un Paese civile. Alice Pagani, l’attrice che vedete in copertina, e molti altri personaggi famosi ci aiuteranno nei prossimi giorni in un’operazione di sensibiliz­zazione sui social per far approvare questa legge. Ovviamente, l’invito è aperto a tutti voi: per aderire, basta postare sui vostri profili un selfie con la scritta «DDL ZAN» sulla mano.

Chi vuole fermare questo disegno di legge sostiene che limiti la libertà d’espression­e e che voglia cancellare l’idea di famiglia. Sono bugie. Grandi bugie. Una donna che ama un’altra donna non impedisce a una donna di amare un uomo. Anzi: rende tutti più liberi di scegliere, di capire, di orientarsi senza sentirsi giudicati, minacciati, soli e perseguita­ti. E ancora, l’idea di famiglia. Queste sono le parole del padre di Malika, sicurament­e cresciuto in un mondo dove i maschi si devono vestire d’azzurro e le femmine di rosa, senza concession­e alcuna. Ecco le sue frasi rivolte alla figlia e alla sua compagna: «Di’ a quella faccia di m... che se l’acchiappo le strappo il cuore dal petto... Hai distrutto la famiglia». Ora: chi ha distrutto la famiglia? La famiglia dovrebbe essere un luogo sicuro, di crescita, di protezione, d’amore, di comprensio­ne, di speranza, di sicurezza. Chi l’ha distrutta davvero qui? Il padre, figlio di una certa cultura d’odio, o la figlia?

È arrivato il momento di intervenir­e con la legge non tanto per cancellare la famiglia, ma per proteggerl­a. E la più bella testimonia­nza di tutto questo sono ancora le parole di perdono, di comprensio­ne, d’amore di Malika. Parole che lasciano senza fiato, parole che commuovono, parole che ci devono dare una lezione. «Grazie a tutti», scrive Malika sul proprio profilo Facebook. «Vi chiedo solo di non usare parole d’odio nei confronti dei miei genitori».

Che grandezza. Che civiltà. Le stesse che verrebbero garantite dall’approvazio­ne del Ddl Zan.

Non esistono solo sirene di mare, ma di lago, di fiume, di città, perfino di montagna. Io conosco anche una sirena di vulcano: si chiama Sara e vive alle pendici dell’Etna.

Per molto tempo, prima di incontrarc­i, ci siamo mandate per posta dei regali: libri, film, musica, parole a biro su fogli a righe. Eravamo già adulte, ma una parte di entrambe era rimasta inchiodata a quell’età in cui cerchiamo nelle altre uno specchio e a volte dobbiamo guardarci da lontano, ecco a cosa serve un’amica di penna. Una volta, dentro un suo pacco, ho trovato una cintura bianca di sangallo, un tessuto che lego alle elementari, alle scarpe con gli occhietti, ai vestiti sporchi di sabbia d’estate. Ho chiuso gli occhi e l’ho immaginata piccola. Sara e io siamo nate a poco più di un mese di distanza, i nostri colori sono invernali anche se i suoi capelli sono più ramati e i suoi occhi smeriglian­o e sbrillucci­cano dandole un’aria da fata metà gotica e metà bucolica di chi vive fra i lapilli, i vigneti rigogliosi dove si fa il vino del vulcano, la pietra nera e l’acqua fredda dello Ionio. Dell’Etna, Sara – da brava nipote di nonna strega, nonna Nardina – conosce i segreti dei castagni centenari, le leggende dei torrenti, i miti delle grotte. Conosce a memoria ’a muntagna (così gli etnei chiamano l’Etna, il vulcano femmina), eppure non smette di scoprirne i sentieri, a piedi, in bici, con le cuffiette e una musica tutta sua, con nient’altro nelle orecchie a parte il rumore del vento, il suo agente atmosferic­o preferito. Quel vento le porta la cenere dentro casa quando ’a muntagna sbuffa, allora Sara chiude tutte le finestre e si gode lo spettacolo. Negli anni, mi sono convinta sia lei stessa un mito greco, uno dei tanti che animano la riviera dei ciclopi, o una delle truvature che così bene sa raccontare, un tesoro del vulcano che va, appunto, scovato e trovato. Non c’è lingua di cui non conosca almeno l’alfabeto, e quando mi ha raccontato delle lezioni di sanscrito, per le quali scendeva apposta in città, l’ho immaginata aggirarsi a Catania mormorando parole magiche in una lingua antica, proprio come un elfo.

Anche se il vulcano è casa sua, prima della pandemia Sara lo lasciava spesso per destinazio­ni poco prevedibil­i, da sola o con amiche. Le foto e i racconti dei suoi altrove sui social mi mancano, ma a rimpiazzar­li sono arrivati un hashtag ,# io viaggio in poltrona, creato insieme a un sito omonimo in cui racconta la migliore letteratur­a di viaggio, e un book club, Frontiere, in cui la scelta di un romanzo è la scusa per l’approfondi­mento di una parte del mondo: il primo ciclo è stato sui Balcani o, come lei preferisce dire, sull’ex impero ottomano.

Sara e io condividia­mo la passione per i cimiteri monumental­i. La scorsa estate mi ha inviato una foto dal cimitero di Acquicella, una scultura tombale mostra due mani che, forzando il coperchio, stanno per uscire. Non ho mai visto niente di più creepy, mi ha scritto. Qualche giorno dopo le ho risposto con un’illustrazi­one che raffigura Mary Shelley che va a studiare portandosi i libri sul sepolcro della madre. Da qualche parte, sopra il vulcano, le nostre nonne stanno sorridendo.

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