Vanity Fair (Italy)

LA VERITÀ È RIVOLUZION­E

Mestruazio­ni, autoerotis­mo, omosessual­ità: nella «guerra di parole» vince chi affronta la realtà. Quella che i politici non vogliono vedere. Per ALICE PAGANI è ora di alzare la voce, dal Ddl Zan in poi

- di SILVIA BOMBINO foto JOSEPH CARDO servizio GAIA FRASCHINI

Come fili elettrici scoperti, i lunghi capelli che Alice Pagani ha liberato per farli «allungare all’infinito» si attorcigli­ano alle dita e producono scintille e pensieri a velocità supersonic­a. Mentre sorride – molto – e si scusa – spesso – per la raffica di parole, racconta che quei fili sono cresciuti insieme a lei, durante l’anno della pandemia. «Ho passato il tempo a guardarmi bene, dentro, a cercare la mia luce», dice abbassando gli occhi. Intanto, fuori, succedevan­o due cose: un film, Non mi uccidere, in streaming dal 21 aprile, e un libro, Ophelia, di cui ha appena consegnato le bozze e che uscirà a maggio per Mondadori Electa. È sera, e lei è stanca ed eccitata insieme, dopo una proiezione per la stampa del film. «Gli effetti speciali sono molto belli, la parte fisica è molto importante. Sono abituata alle cose che escono in streaming (la serie che l’ha resa famosa, Baby, è andata in onda su Netflix per tre stagioni, ndr), ma il cinema è un’esperienza. Non ci andavo da agosto, mi sono emozionata».

È un film dark, con elementi soprannatu­rali, già definito «il italiano»: è stato difficile interpreta­rlo?

Twilight

«La sfida era rendere la purezza del mio personaggi­o, Mirta, una “sovramorta”. È stato un viaggio anche dentro di me, che è cresciuto sempre di più. E ha influenzat­o, perché giravo mentre lo scrivevo, anche la stesura di Ophelia, che è l’alter ego che mi sono data su Instagram».

Una volta ha detto che voleva scrivere la storia di lei e sua madre. È diventata questo libro?

«No. Il racconto di noi due forse un giorno lo trasformer­ò in un film, ho una forma di dislessia per cui leggere e scrivere per me è complicato, funziono meglio con le immagini. E poi da piccola ho sempre pensato di vivere in un film con mia madre. Avevo visto The Truman Show e mi chiedevo sempre se quello che vivevamo era reale o meno. Il libro invece parla di questa ragazza che viene da un paesino, come era il mio, e fa una strada simile alla mia ma diversa, ho come voluto immaginare un percorso parallelo, una mia vita alternativ­a, qualcosa che poteva essere. L’ho vissuta come una seconda possibilit­à, ho messo tutto quello che mi ispira, canzoni, atmosfere di film».

È un racconto in prima persona.

«Sì, volevo che il lettore vedesse le cose dalla prospettiv­a di Ophelia, c’è moltissimo di me e del mio mondo onirico, dark, fiabesco. Il personaggi­o parte dall’ambiente protetto del paese, dove le sole cose di cui hai paura sono il silenzio, il buio, la noia, per poi arrivare nella metropoli e aver paura degli altri, del fatto che tutto è più grande di te. Ophelia lotta per sconfigger­e questa paura, e la sua è una ricerca di felicità, in un posto dove ci sono più possibilit­à di crescere, scoprirsi, conoscersi, trovare il proprio posto».

La voglia di diventare adulta è anche sua?

«Assolutame­nte sì. Anche se l’incontro con il mondo degli adulti poi è deludente perché è fatto di etichette, menzogne, cose materiali. Lì c’è la disillusio­ne: Ophelia non sta cercando una casa, vestiti, soldi, una bella ragazza o un bel ragazzo accanto a lei, sta cercando sé stessa e chi la fa sentire sé stessa, non avendo paura di essere quello che è».

Come ci riesce?

«Viene da un piccolo paese dove la sessualità è un tabù, non si può parlare apertament­e, la chiesa è un punto di riferiment­o, si reprime molto, c’è una castrazion­e femminile. Per trovarsi, deve esplorare anche il suo corpo. Scrivo di masturbazi­one perché è un modo per conoscersi, e sono convinta che bisogna parlarne in modo disinvolto perché è una via per diventare consapevol­i del proprio corpo. E scrivo anche di sesso; è un po’ difficile entrare nel mondo degli adulti dicendo: “Certamente sono etero”. L’esperienza la devi fare. In questo libro Ophelia si permette di studiarsi con una donna, di capire come si sente ad amare una persona del suo stesso sesso, lo vuole scoprire dopo aver provato un’esperienza con un uomo».

Anche lei è partita da Piattoni, il paese dove è cresciuta in provincia di Ascoli Piceno, per approdare a Roma.

«È un luogo dove non ci sono molte possibilit­à, ma solo un cinema, un centro commercial­e e tre bar, che chiudono alle 20 anche se non c’è il coprifuoco. Tante case e poi i boschi, la campagna. Da bambina per giocare devi inventarti sempre qualcosa tu, perché non c’è molto da fare. Il tempo è scandito dalle fermate di un autobus che in un tempo lunghissim­o ti porta nel posto più vicino, che è un capoluogo comunque lontano da tutto. Il motorino diventa la libertà, gli argomenti sono il calcio che ruota attorno al campetto dell’oratorio, quindi alla chiesa. La gente è molto devota e insieme giudicante verso chi è aperto, diverso, e per questo spaventa».

Chi era diverso?

«Io, per cominciare. Prendiamo la mia scelta di fare il liceo artistico, per esempio: veniva visto come una scuola di freak. Eppure per me è stata una scuola importanti­ssima perché in quel contesto chiuso, a 14 anni, vedere per la prima volta i corpi nudi dei modelli, per poterli disegnare, e capire che ne esistono di tutte le forme, perfetti, imperfetti, è stata una rivelazion­e. Ma il sentirmi “altra” è iniziato prima. Mi ricordo che mia madre mi spiegò cosa fossero le mestruazio­ni, io lo raccontai in classe e le altre mamme si lamentaron­o. I miei sono operai, vivevo nelle case popolari, dove la vita è più dura, la prima scuola che incontri sono le difficoltà, la gente che frequenti ha problemi di soldi, integrazio­ne, sopravvive­nza. Sono cresciuta tra cinesi, kazakistan­i, filippini, che erano i miei amici. Dalle villette dei benestanti sembravamo alieni, a scuola ero la capetta del gruppo degli emarginati. Ero iperattiva e dislessica, sono finita sulla sedia a rotelle per una immobilità temporanea data da una malattia rara. Eppure gli ostacoli e l’esempio di mia madre mi hanno reso una ragazza forte, senza paura, ho sempre fatto e detto quello che pensavo in un contesto chiuso e anche razzista».

Ha assistito a casi di discrimina­zione?

«Tantissimi. Non conto i casi di catcalling, gli insulti per

strada ai miei amici a cui urlavano: “Froci”. Avevo un compagno di classe mulatto, alle elementari, sua madre era bianca e suo padre nero. Ricordo con precisione che altre bambine venivano da me a chiedermi, disgustate: “Ma tu ti fidanzeres­ti mai con un uomo così?”. Io invece non mi ero mai posta la domanda, anzi, ero affascinat­a dalle loro mani diverse che si univano… Andai a casa e lo dissi a mia mamma: lei mi spiegò che si trattava di ignoranza, che mi dovevo sentire libera di amare chi volevo e non pormi limiti».

Poi ha seguito il consiglio?

«Sì, ho avuto delle esperienze anche con delle donne e credo di essere bisessuale da sempre. Non è mai stato un problema per nessuna delle mie amicizie, ma è una cosa che non ho ancora vissuto davvero, sono all’esplorazio­ne di me stessa, sto crescendo».

Segue la tormentata vicenda del Ddl Zan contro la omotransfo­bia?

«Sì. È una legge che serve a proteggerc­i tutti, a responsabi­lizzarci singolarme­nte. Non tutela solo i più deboli ma educa anche una società che non è preparata su questi temi. È un’educazione civica che serve perché siamo nel 2021. Non esiste una perfezione, un canone a cui aspirare, e dall’altra parte l’errore e l’imperfezio­ne. Il messaggio sano che bisognereb­be dare è: state bene, amate felicement­e una persona. Nel mio libro si parla anche di questo».

Lì descrive Tito, un ragazzo che sogna di diventare la più famosa drag queen d’Italia.

«È il personaggi­o che insegna a Ophelia a buttarsi. Insieme si sono trovati, hanno gli stessi sogni anche se sono un maschio e una femmina, e cercano entrambi la liberazion­e».

A proposito di libertà: i detrattori del Ddl Zan sostengono che approvarlo ridurrebbe la libertà di alcuni di dissentire verso stili di vita giudicati sbagliati.

«Se noi continuiam­o a promuovere stereotipi per avere controllo sulle vite degli altri non avremo mai la libertà. Ma la mia generazion­e ora chiede non solo libertà, ma anche verità. Cioè, per la mia generazion­e la verità è libertà. Per noi l’omosessual­ità, la transessua­lità, la fluidità di genere non sono più un tabù: la verità va spiegata ai più giovani, non va nascosta. Siamo molto arrabbiati però, perché abbiamo dovuto lottare con persone che, invece, se vedono due uomini che si baciano per strada dicono al figlio: “Tesoro, non guardare”. Penso che il bacio sia un’educazione, e la violenza una diseducazi­one. La libertà di potersi baciare in pubblico senza subire alcun tipo di commento o ritorsione è un diritto di tutti, uomini e donne, fa parte dell’essere umano. Una legge che promuove il non giudizio, sull’orientamen­to sessuale questa volta, ma anche su come ci si veste, sull’aspetto, sulle scelte spirituali, è la base dell’educazione».

C’è un movimento d’opinione trasversal­e, che va da Fedez a Cracco, che si ribella a questo vuoto normativo, e adesso alza la voce. Perché è importante non restare in silenzio?

«Perché siamo davvero in ritardo sulla realtà, il Paese sta andando avanti, mentre i politici al governo sono fermi. Forse bisognereb­be dare più potere ai giovani, che oggi sono molto più veloci. L’estate scorsa sono scesa in piazza con il mio fidanzato (Dylan Thomas Cerulli della Dark

Polo Gang, ndr) a sostegno del movimento antirazzis­ta Black Lives Matter, e protesterò tutte le volte che avrò davanti ciò che trovo inaccettab­ile: la violenza».

Perché una donna non ha problemi a dire di essere bisessuale e invece un maschio sì?

«Io scelgo di dire la verità. Scelgo di dire che secondo me è bene scoprire il resto, senza rimanere chiusi e dire a prescinder­e “no”. Per un uomo è più complicato: i maschi devono reprimere la parte femminile perché altrimenti vengono giudicati».

In certi ambienti è ancora comune nasconders­i. Kate Winslet ha appena detto di conoscere almeno quattro attori omosessual­i che non possono fare coming out a Hollywood perché sarebbe un ostacolo alla carriera.

«Anche in Italia. Conosco alcuni casi ovviamente, e succede perché il coming out potrebbe scatenare un dubbio nella scelta del ruolo. È ingiusto, naturalmen­te, ma noto dei cambiament­i. Vedo il futuro, vedo un movimento». Ossia?

«Il popolo acquisirà sempre più potere di parola e i politici si dovranno adeguare. I valori e le idee migliori le stiamo scegliendo ogni giorno noi persone comuni, attraverso quello che compriamo, quello che scegliamo di vedere in tv, quello che scriviamo e diciamo sui social. Insieme, cambiamo il mondo, un’azione alla volta. Non credo in una lotta armata ma in una guerra verbale, in cui si dice la verità. La verità è rivoluzion­e».

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