A OGNUNO IL SUO
La visione di Francesca Neri Antonello
Architetta di grande sofisticazione, attenta ai dettagli, ai riferimenti culturali, alla possibilità di far convivere stimoli provenienti da mondi diversi. Francesca Neri Antonello, mamma peruviana e padre bolognese, cresciuta viaggiando tra Svizzera e Stati Uniti, con una formazione professionale a Milano e un marito comasco con il quale abita − in un castello − a Lugano.
Un bel mix, sembra riassumere la tendenza del momento: mescolare e abbinare con sapienza. Come si fa?
«Ci vuole la passione per i pezzi unici e divertenti, la voglia di creare stanze che non siano soltanto funzionali, ma anche emozionali».
Un esempio calzante è chi ne fa un salotto, chi la equipaggia come una vera spa. E lei?
la salle de bain: «Io per il bagno ho sempre avuto un debole. È il rifugio perfetto, deve assomigliare a chi lo abita. Per questo ritengo che sia fondamentale, in una coppia, avere bagni separati. Per conservare un pizzico di mistero, ma non solo: anche per godere appieno dei propri momenti privati, per coccolarsi. Ci vuole uno spazio tutto per sé. Nella mia casa ho messo una vasca importante, modernissima, firmata da Patricia Urquiola, su un pavimento dell’800. La doccia è un rito quotidiano, ma il bagno in vasca è un piacere da assaporare lentamente. E ora che si passa più tempo in casa, anche il bagno ha acquisito una dimensione diversa. Ogni ambiente è stato rivisto, ripensato, come spazio e come valore. Il bagno è il vero nido».
Nel progettare, quali sono le priorità per una stanza da bagno perfetta?
«Non ci sono regole fisse, ognuno deve poter creare, insieme al suo architetto, il bagno dei sogni. Il focus è trovare un’armonia fra lo spazio tecnico e il nuovo concetto di “abitabile”, che dalla cucina è traslato al bagno. Trovare un’identità che metta in risalto la personalità di chi lo sceglie, questa è la sfida. Io punto su una sorta di customizzazione sartoriale. Quando non trovo qualcosa sul mercato, lo invento, come ho fatto con la ciotola di cemento, un nuovo tipo di lavandino che non esisteva e che allora ho disegnato io».
Quale sarà la prossima stanza da ripensare?
«Per chi ha spazio a sufficienza, sicuramente lo studio, quello che un tempo si chiamava biblioteca. Può anche essere un piccolo angolo, ma deve garantire la privacy a chi ha la necessità di lavorare in casa».
Di nuovo in scena dopo questo stop. Con quale animo?
«Mi commuoverò molto, a nome di tutto il teatro italiano. Perché non ricomincerò solo io; ci sarà un bel codazzo di colleghi che verrà dopo di me. Sempre dopo, eh! Scherzo... Fino a un certo punto».
Come nasce questo spettacolo?
«Io sto tanto bene da sola sul palco, non sa quanto! E siccome trovo immorali quegli attori che leggono un testo, prendono i soldi e se ne vanno, mi sono inventata questa lettura spettacolo… un letturacolo. Quello che ha scritto Paolo Villaggio, lo leggo; quello che ho scritto io, lo recito». Com’è ancora umano lei, caro Fantozzi è il titolo. Al
presente.
«Fantozzi è per sempre, sì. Come le grandi maschere».
Perché, proprio oggi, ha voglia di far rivivere la Silvani?
«Perché ho fatto Cyrano de Bergerac, uno spettacolo sulla Magnani, La locandiera… Ho fatto tutto. Era arrivato il momento di consumare questa specie di vendetta nei suoi confronti, mia croce e delizia».
Partiamo dalla delizia.
«Chissà quante colleghe avrebbero pagato per interpretarla».
E croce?
«Lei ha approfittato di me, per tanti anni. Me lo permetta: la signorina Silvani è una stronza».
Perché l’ha ingabbiata in un ruolo?
«Se mi fossi fatta ingabbiare in quel ruolo, la stronza sarei io. È stronza come tipo di donna».
Stronza, ma simpatica.
«Ce ne sono tante di stronze simpatiche. Non mi faccia fare nomi! La sua stronzaggine, però, è impastata con la sua solitudine».
È stronza perché sola, o sola perché stronza?
«Lei sembra un po’ Marzullo, sa? In genere sono le donne intelligenti a essere sole, perché inavvicinabili. Quando un uomo frequenta una stronza, invece, se è intelligentino, non ce la fa a sostenerne la stronzaggine e l’abbandona».
Come è diventata la Silvani?
«Avevo già lavorato con Luciano Salce, il regista. Quando lui e Villaggio cercavano i cessi da mettere attorno a Fantozzi, si ricordò di me, ma per il ruolo della moglie Pina. Al provino andai con capelli da leonessa, un abito rosso attillatissimo, calze a rete. Mi disse: “Perdonami, ma ti ricordavo più brutta”. Paolo gli sussurrò all’orecchio: “È brutta anche lei, ha un sacco di difetti, però li porta sui tacchi. Uno come Fantozzi non può che sognare una così”».
La Silvani ha una sua carica di sensualità.
«Paolo Villaggio voleva sempre che gli cantassi delle canzoni, in particolare Bocca di rosa. Un giorno ho preso il suo spirito e l’ho messo addosso a quello della Silvani, regalandole lo stesso senso di conquista grottesca. Preferiva apparire come una puttana, piuttosto che sola».
Forse, però, alla Silvani deve anche qualcosa.
«Con questo spettacolo ne riconosco l’importanza. E soprattutto la riconosco a Paolo».
Com’era Villaggio?
«Molto chiuso. Ricordo un set, a Courmayeur. Eravamo soli, nella neve. Era bianco come può esserlo il Monte
Bianco. Io vestita da Heidi e lui coi calzoni ascellari. Un silenzio agghiacciante. All’improvviso mi dice: “Anna, sai chi mi ha cercato? Strehler! Vuole che interpreti Il buon soldato Sc’vèik”. “Che bella intuizione, sei contento?”, dissi io. “Sì, molto, devo andare a parlare con lui”. Punto. Non mi ha più detto nulla e non è più successo niente. Trattava i rapporti di lavoro come il cibo: si faceva portare cartoni strapieni di pizze, ma ne sbocconcellava soltanto un po’».
Faceva lo stesso con le persone?
«Non so, non eravamo amici. Eravamo compagni di strada nel cinema, rispettosissimi l’uno dell’altra».
Le dispiace non essere stata sua amica?
«Non amo essere amica degli attori. Perché gli attori hanno un rapporto vero solo quando stanno in scena».
La Silvani non è bella, ma incarna il desiderio. Un’antesignana della bellezza inclusiva di cui oggi parliamo?
«Ogni tanto, per cinque minuti, anche a me piacerebbe essere una stanga di uno e ottanta, avere le gambe attaccate ai lobi delle orecchie, il culo alto e le tette al vento. Mi piacerebbe andare a un provino e dire: “Son qui, cosa devo fare?”. “Niente, signorina, per carità! Ecco il contratto”. Dove sta questa nuova bellezza? Ne vede altre di atipiche, oltre me?».
Ha sofferto per la sua «atipicità»?
«All’inizio sì. Non dolore, ma un grande fastidio lo provocava. Ho imparato a svicolare, a essere autoironica, a denigrare me stessa prima che lo facessero gli altri».
Che cosa ha in comune con la Silvani?
«Il fisico. Quando guardo lei, vedo me allo specchio».
E che cosa vi differenzia?
«Speravo mi dicesse lei che la Silvani è stronza, mentre io sono intelligente…».
Gli stronzi spesso sono molto intelligenti.
«Diciamo che è una stupida, allora. Una che si è fatta eleggere “Miss quarto piano” dopo aver tentato inutilmente di farsi tutti quelli del primo, del secondo e del terzo».
Gli uomini la usavano, in qualche modo?
«Non se la cagavano proprio. Solo Fantozzi l’amava. E lei, come fanno spesso le donne non troppo intelligenti, lo prendeva in giro. Ma se ne pentirà amaramente».
Cosa direbbe, oggi, la Silvani a Fantozzi?
«Torna, ’sta casa aspetta a te!».
Quindi, con il tempo ha imparato a credere a quell’amore?
«La solitudine a volte ti fa pensare cose che non avresti mai il coraggio di dire. Ma io, sul palco, gliele metto in bocca. Perché, sì, il personaggio mi piace».
E sola, lei, non si è mai sentita?
«La solitudine grande mi prende solo in mezzo ai cretini».
Le capita spesso?
«Quando lavoro per il cinema sì. Paolo mi ha viziata con la sua intelligenza, la sua raffinatezza e la sua cultura. Dopo di lui mi è capitato di fare certe cagate… A teatro sono una primadonna, al cinema un’anziana caratterista alla quale mettere in testa la parrucca bianca e far dire quattro “vaffanculo”. Basta che la gente rida, dicono...». ➡ TEMPO DI LETTURA: 7 MINUTI