Re Boris nel Regno Disunito
Come il più spericolato dei funamboli, il primo ministro Boris Johnson continua a fare piroette a dieci metri d’altezza, ma non casca mai. Anzi, più rischia l’osso del collo, colleziona gaffe e scandali, più sembra intercettare i favori del popolo britannico. Visto dall’Europa il fatto può risultare incomprensibile e Boris, con quella zazzera bionda sempre più scapigliata e il suo goffo muoversi da orso in una cristalleria, sembra un personaggio surreale. Eppure, nella tornata elettorale del 6 maggio – il supergiovedì in cui si votava tra l’altro per il sindaco di Londra e per il rinnovo del parlamento scozzese – non solo il partito conservatore di cui è il leader ha tenuto, ma ha superato ogni più rosea previsione, conquistando centinaia di seggi comunali in più, feudi storici della Sinistra e rafforzando il premier a Downing Street: secondo alcuni commentatori adesso potrebbe rimanerci «per altri dieci anni», accarezzando il sogno di emulare
i suoi idoli Margaret Thatcher e Winston Churchill, a cui ha anche dedicato una corposa biografia. Boris piace agli inglesi perché ha capito cosa piace agli inglesi. Prima di tutto l’idea di essere inglesi, quindi isolani e isolati, diversi e invincibili. Lo sono, almeno militarmente, dalla battaglia di Hastings, quando nel 1066 fu l’ultima volta che un conquistatore straniero
– il normanno Guglielmo II – riuscì a espugnare l’isola. La narrativa militare, come le divise e le medaglie, le parate e in parte anche l’attaccamento alla monarchia piacciono al popolo e Boris ci gioca a meraviglia. Nelle settimane precedenti alle elezioni Boris era finito sotto attacco per ogni sorta di scandalo, bugie e collusioni: doppi lavori di alti dirigenti statali che fanno consulenze per aziende private, fondi opachi al partito conservatore, una serie di favori a amici e finanziatori, la ristrutturazione da 200 mila sterline dell’appartamento di Downing Street voluta dalla fidanzata Carrie Symonds, per l’occasione soprannominata Maria Antonietta (quella delle brioche). Tutto ciò non gli è costato un voto.
Boris ha occupato le prime pagine dei giornali con l’annuncio dell’invio verso la Cina di una flotta della Royal Navy, guidata dalla portaerei Queen Elizabeth, la più grande di sempre, con a bordo sedici caccia F35 invisibili, accompagnata da un sottomarino nucleare armato di missili cruise, «la più massiccia concentrazione di potere marittimo a muoversi in una generazione» (parole del ministro della Difesa).
Con la Cina che spedisce missili sulla Luna, la grande nemica Russia che mostra i muscoli, gli Usa di Biden che tornano sullo scenario internazionale, il messaggio della Gran Bretagna al mondo vuole essere uno: fuori dai lacci e lacciuoli di Bruxelles torneremo la grande potenza che eravamo. Per questo guardiamo a Oriente, perché i giochi si stanno spostando in quelle acque, «siamo tornati e siamo qui per restare». Anche la scaramuccia per le capesante con i pescatori francesi a Jersey per rivendicare il rispetto degli accordi post Brexit sui diritti di pesca nella Manica è stata sfruttata in questa ottica: il governo ha spedito un paio di navi da guerra «per monitorare la situazione», ma il sottotesto era ricordare la sconfitta di Napoleone a Trafalgar e Boris sa bene quanto evocare l’ammiraglio Nelson funzioni sempre in Gran Bretagna. Quindi la nuova Gran Bretagna vuole essere una «Global Britain», proiettare la propria influenza nei luoghi dove si costruisce il futuro, fare accordi commerciali diretti. Cina, ma anche India, Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Vietnam sono le nuove terre promesse. E pace se un pacco dall’Europa si incastra nei controlli doganali per dieci giorni. L’Europa è poco più che una pulce, per gli inglesi che guardano al mercato globale. In questa ottica va letta anche l’apertura di Londra ai cittadini di Hong Kong con passaporto britannico. E anche la guerra dei vaccini, con AstraZeneca che ogni giorno si ribadisce creato a Oxford.
Boris l’invincibile, dunque? Non proprio. Johnson rischia di essere il capo di un «Regno Dis-Unito» e le spinte centrifughe sono più forti che mai dopo la Brexit. Il confine e gli accordi di pace in Irlanda del Nord sono un problema e a Belfast sono partite le prime rivolte. Il Galles per parte sua chiede autonomia, ma il segnale più preoccupante è arrivato dalla Scozia, dove lo Scottish National Party ha trionfato per la quarta volta di seguito e la premier Nicola Sturgeon ha mancato per un seggio l’obiettivo della maggioranza assoluta al parlamento di Holyrood. La battagliera premier scozzese, che incarna lo spirito indomito di Braveheart e l’odio contro Londra, ha già detto che chiederà un nuovo referendum per l’indipendenza e che, una volta liberi, gli scozzesi torneranno nella Ue. Boris ha già risposto che per una generazione non se ne parla. È da capire se potrà davvero evitare una nuova consultazione, la seconda dopo quella del 2014 in cui gli unionisti hanno prevalso. La questione rischia di finire all’Alta corte di giustizia. E Boris il Grande di diventare un novello Giovanni Senza Terra.
La «nuova» Gran Bretagna vuole essere una GLOBAL BRITAIN, proiettare la sua influenza nei luoghi dove si costruisce il futuro, stringere alleanze dirette