Italian Pop
Visto dal «blu dipinto di blu», il Paese ci induce a sperare in una malavita migliore. Se lo si osserva dal buco della serratura, se ne esce con affanno, indecisi se chiamare il Mago Merlino o la senatrice Merlin. Ma davvero siamo così orribili, sfatti, volgari, così ultra-cafonastri? Cosa ci ha disumanizzati, sformati, rincitrulliti, resi spietati e disperati, in vendita sul mercato, tagliati fuori dalla vita? Gli anni, certo, sempre crudeli: il puttanesimo, l’ignoranza, il denaro, la fine della politica, la mascalzonaggine, il Covid, la paura della morte. L’Italia non più monde, né demi-monde, non più alta società né società, non più jet set né café society: una cosa liquida, un fiume dove entra di tutto. Dove saranno finite la voglia di bellezza e la bellezza stessa? C’è un modo per consolarsi? A sentire la vox populi e quella di certe anime belle, svelte nel voltar la frittata quando cessa la convenienza, si direbbe un Paese condannato alla pena di sopravvivere. Un momento. E se fosse proprio qui la soluzione? Bisogna invece amare l’attuale disordine, sfruttarlo. Non c’è dubbio che, secondo l’analisi di infiniti studiosi, il disordine è la modernità: prodotto del movimento e dell’incertezza. Sotto l’Italia
scorre da sempre una doppia vita. Da una parte c’è un Paese solido ma svalvolato, legato a una cultura millenaria che permette di non confondere la Storia con la cronaca, e alquanto protetto dal welfare della famiglia. Dall’altra scorre un fiume incontrollato di desideri feroci, una concentrazione vulcanica di estasi e di edonismo che è il vero sogno italiano. Eccoci a un delirio: siamo un Paese Pop. Prima ancora che se lo inventasse Andy Warhol. Seguitemi e scoprirete il poppismo italiano. Il tutto e subito è pop, la fama a prescindere dal merito è pop, la ricerca ossessiva della visibilità è pop. Vivere vite irreali, in cui non esistono il peso del quotidiano e la fatica del dovere, ma solo il folle compito di scoprire il proprio limite attraverso la sregolatezza, è pop. Trattare il niente come se fosse qualcosa, è pop. Tutti gli scandali aiutano la pubblicità, perché non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità, è pop. Ignorare dove l’artificiale finisca e cominci il reale, è pop. Non leggere mai, guardare solo le figure, è pop. Non aver memoria, è pop. Dire cose radicali in forma conservatrice, è pop. Quando siamo buoni siamo molto buoni, ma quando siamo cattivi siamo meglio, è pop. Non è quello che sei che conta, è quello che pensi di essere, è pop. Non manca niente. La situazione è grave ma non è seria, è pop. «Sti cazzi», è pop. C’è tutto. L’ingenuità infantile, il fascino radicato nella disperazione, la trascuratezza narcisistica, la perfetta alterità, l’inaffidabilità. Il Pop è il linguaggio dell’Italia in cui viviamo. Una nuova idea. Un nuovo look. Un nuovo sesso. Un nuovo cretino. Un nuovo paio di mutande.