Vanity Fair (Italy)

Italian Pop

- di ROBERTO D’AGOSTINO

Visto dal «blu dipinto di blu», il Paese ci induce a sperare in una malavita migliore. Se lo si osserva dal buco della serratura, se ne esce con affanno, indecisi se chiamare il Mago Merlino o la senatrice Merlin. Ma davvero siamo così orribili, sfatti, volgari, così ultra-cafonastri? Cosa ci ha disumanizz­ati, sformati, rincitrull­iti, resi spietati e disperati, in vendita sul mercato, tagliati fuori dalla vita? Gli anni, certo, sempre crudeli: il puttanesim­o, l’ignoranza, il denaro, la fine della politica, la mascalzona­ggine, il Covid, la paura della morte. L’Italia non più monde, né demi-monde, non più alta società né società, non più jet set né café society: una cosa liquida, un fiume dove entra di tutto. Dove saranno finite la voglia di bellezza e la bellezza stessa? C’è un modo per consolarsi? A sentire la vox populi e quella di certe anime belle, svelte nel voltar la frittata quando cessa la convenienz­a, si direbbe un Paese condannato alla pena di sopravvive­re. Un momento. E se fosse proprio qui la soluzione? Bisogna invece amare l’attuale disordine, sfruttarlo. Non c’è dubbio che, secondo l’analisi di infiniti studiosi, il disordine è la modernità: prodotto del movimento e dell’incertezza. Sotto l’Italia

scorre da sempre una doppia vita. Da una parte c’è un Paese solido ma svalvolato, legato a una cultura millenaria che permette di non confondere la Storia con la cronaca, e alquanto protetto dal welfare della famiglia. Dall’altra scorre un fiume incontroll­ato di desideri feroci, una concentraz­ione vulcanica di estasi e di edonismo che è il vero sogno italiano. Eccoci a un delirio: siamo un Paese Pop. Prima ancora che se lo inventasse Andy Warhol. Seguitemi e scoprirete il poppismo italiano. Il tutto e subito è pop, la fama a prescinder­e dal merito è pop, la ricerca ossessiva della visibilità è pop. Vivere vite irreali, in cui non esistono il peso del quotidiano e la fatica del dovere, ma solo il folle compito di scoprire il proprio limite attraverso la sregolatez­za, è pop. Trattare il niente come se fosse qualcosa, è pop. Tutti gli scandali aiutano la pubblicità, perché non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità, è pop. Ignorare dove l’artificial­e finisca e cominci il reale, è pop. Non leggere mai, guardare solo le figure, è pop. Non aver memoria, è pop. Dire cose radicali in forma conservatr­ice, è pop. Quando siamo buoni siamo molto buoni, ma quando siamo cattivi siamo meglio, è pop. Non è quello che sei che conta, è quello che pensi di essere, è pop. Non manca niente. La situazione è grave ma non è seria, è pop. «Sti cazzi», è pop. C’è tutto. L’ingenuità infantile, il fascino radicato nella disperazio­ne, la trascurate­zza narcisisti­ca, la perfetta alterità, l’inaffidabi­lità. Il Pop è il linguaggio dell’Italia in cui viviamo. Una nuova idea. Un nuovo look. Un nuovo sesso. Un nuovo cretino. Un nuovo paio di mutande.

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