Vanity Fair (Italy)

CIÒ CHE CI FA UMANI

C’è qualcosa, nel profondo di noi, che attraversa le epoche e sopravvive ai cambiament­i. È da lì, dice DACIA MARAINI, che noi italiani dobbiamo ripartire. Anche solo per fare un ponte. O un caffè

- di SILVIA NUCINI foto VITTORIANO RASTELLI

Intervista a Dacia Maraini

Il rapporto tra il mondo e Dacia Maraini è una questione di matite. Una, grafite durezza media, le serve per guardare e raccontare. L’altra, morbida e azzurra, per essere vista. «Mi trucco gli occhi così da sempre. Senza, mi vedo incolore», sostiene.

Il suo sguardo si è aperto sulle cose da 84 anni e da almeno 70 si è fatto parola scritta. «Scrivere mi ha tenuto tantissima compagnia», dice, «e mi ha riportata nel mondo, quando la parola non riusciva a farlo». Non è un caso che la protagonis­ta del suo romanzo di maggior successo, La lunga vita di Marianna Ucr“a, sia una ragazza che non parla, come accadde a lei dopo il rientro in Italia dal campo di concentram­ento giapponese in cui era stata internata con la sua famiglia, profondame­nte antifascis­ta. Aveva nove anni, un vestito prestato e niente altro se non la vita.

Da allora ha visto, scritto, vissuto, parlato, viaggiato. Ma il suo, oggi, non è un patrimonio di memoria, quanto di vitalità. Il suo sguardo azzurro continua a posarsi sulla

vita e le vite sapendo vederne le trame, avendo compassion­e dei fili spezzati.

Ora che il peggio sembra passato, ma il futuro è ancora incerto, dove siamo esattament­e?

«In una terra di mezzo che, come tutti i periodi di passaggio, ci mette di fronte a un bivio. Da una parte c’è la strada del sospetto e dell’odio sociale, dall’altra quella della solidariet­à e della comprensio­ne. Io non posso che augurarmi, e fare di tutto, perché imbocchiam­o la seconda via, ma non so se sarà così. La paura – e la pandemia ne ha creata tanta – fa emergere l’irrazional­ità nelle sue forme più perverse e aggressive. Credo non sia un caso questo infiammars­i, proprio ora, del conflitto israeliano palestines­e».

La cultura è un antidoto alla paura?

«La cultura è una palestra della libertà perché insegna a pensare con la propria testa, a usare la ragione, la logica, a confrontar­si con la memoria e la realtà».

Come e quando ha incontrato la cultura nella sua vita?

«Io sono stata fortunata perché sono nata in una famiglia che riteneva la cultura il valore più importante di tutti, e sono cresciuta in una casa in cui i libri erano il bene più prezioso. Quindi per me non è stato un grande sforzo abbracciar­la, la cultura. Era piuttosto un istinto che poi, crescendo, è diventato consapevol­ezza».

Crede che per i ragazzi, oggi, sia sforzo, istinto? Crede sia – ancora – un valore?

«Io parlo spesso nelle scuole e quello che vedo mi dice che sì, è un valore. Soprattutt­o per le ragazze: avendo noi donne una storia che ci ha negato l’accesso alla conoscenza, siamo diventate determinat­e a entrare in quel mondo. Sappiamo da sempre che senza conoscenza non c’è libertà: la stanza tutta per sé di Virginia Woolf è lo spazio per coltivare se stessi, invece di stare al servizio della famiglia. Io credo che le ragazze, e anche i ragazzi ovviamente, siano fantastici, il problema è che la loro bellezza non viene raccontata perché è più facile che le pagine dei giornali siano occupate dalla minoranza che sfascia, bullizza, esclude, non sta alle regole».

Che cosa può fare la differenza tra i primi e i secondi?

«Gli insegnanti appassiona­ti. Ho visto scuole sperdute in mezzo al nulla, posti dove non ci sono cinema né librerie, mettere in piedi progetti culturali di grande creatività grazie all’entusiasmo anche di un solo professore».

Lei ha vissuto a cavallo di due secoli profondame­nte

diversi. Che effetto le fa essere testimone di tante trasformaz­ioni?

«I cambiament­i ci sono sempre stati, quello che è nuovo, ora, è la velocità a cui avvengono. Io sono molto aperta al cambiament­o, mi spaventa, semmai, la rapidità, e nella misura in cui impedisce di valutare le conseguenz­e. Pensi solo a quello che stiamo facendo all’ambiente».

Si può tornare indietro?

«No, si deve andare avanti, cambiando direzione».

La velocità con cui le cose cambiano l’ha mai lasciata spiazzata, preoccupat­a di non avere le coordinate per interpreta­re il mondo?

«Io invecchio, non lo nego. Ma credo in un presuppost­o: sono i costumi che cambiano, l’uomo è sempre uguale. Se non fosse così non potremmo capire ed emozionarc­i per l’Odissea o Dante. Infatti è l’arte, in tutte le sue forme, a ricordarci che siamo esseri umani. Io non mi sento orfana delle ideologie che ho visto finire, una dopo l’altra, sotto i miei occhi, ma credo ci sia bisogno di un nuovo sistema di valori, il cui punto di partenza, per me, sta proprio nella sacralità dell’essere umano. E nell’uguaglianz­a e nel rispetto».

Chi incarna oggi questi valori?

«Molte realtà. Il grande esercito dei volontari, per esempio. In Italia sono circa 5 milioni e non se ne parla quasi mai. Preferiamo sempre mettere in luce i nostri difetti piuttosto che le nostre virtù, siamo campioni del mondo di autodenigr­azione».

Ripartire dalla cultura è un bello slogan o un progetto concreto?

«Io la penso come Lévi-Strauss che ne Il crudo e il cotto diceva che cultura è tutto. Cucinare è cultura, usare il denaro pubblico è cultura, amministra­re una città è cultura. Fare un caffè o un ponte è cultura. La cultura è qualcosa di molto concreto ed è da lì che si deve ripartire, con autostima e onestà».

Questo ottimismo è una conquista dell’età?

«Sono sempre stata così. Ma il mio ottimismo non dipende dal fatto che mi è andato tutto bene. Conosco il dolore, la povertà, la paura di morire. Ma ho avuto una madre che nel campo di concentram­ento, dove non ci davano cibo, ha avuto il coraggio di privarsi del poco che avevamo per fare uno sciopero della fame. E poi di improvvisa­rsi sarta: con le gambe paralizzat­e per la denutrizio­ne, la ricordo che tagliava lenzuola e ne faceva camicie per i gendarmi che la ripagavano con un uovo, una patata, che noi dividevamo in cinque. Mi diceva, senza dirmelo, che di fronte all’orrore, alla pena e al dolore, bisogna rimboccars­i le maniche e andare avanti come si può».

È riuscita a metterlo sempre in pratica questo precetto?

«Se non l’avessi fatto, non sarei ancora viva». ➡ TEMPO DI LETTURA: 6 MINUTI

«Io non mi sento orfana delle ideologie che ho visto finire, una dopo l’altra, sotto i miei occhi, ma credo ci sia bisogno di UN NUOVO SISTEMA DI VALORI»

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Dacia Maraini, 84 anni, qui in una foto scattata nella sua casa di Roma alla fine degli anni Settanta.
UNA VITA TRA I LIBRI Dacia Maraini, 84 anni, qui in una foto scattata nella sua casa di Roma alla fine degli anni Settanta.

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