CIÒ CHE CI FA UMANI
C’è qualcosa, nel profondo di noi, che attraversa le epoche e sopravvive ai cambiamenti. È da lì, dice DACIA MARAINI, che noi italiani dobbiamo ripartire. Anche solo per fare un ponte. O un caffè
Intervista a Dacia Maraini
Il rapporto tra il mondo e Dacia Maraini è una questione di matite. Una, grafite durezza media, le serve per guardare e raccontare. L’altra, morbida e azzurra, per essere vista. «Mi trucco gli occhi così da sempre. Senza, mi vedo incolore», sostiene.
Il suo sguardo si è aperto sulle cose da 84 anni e da almeno 70 si è fatto parola scritta. «Scrivere mi ha tenuto tantissima compagnia», dice, «e mi ha riportata nel mondo, quando la parola non riusciva a farlo». Non è un caso che la protagonista del suo romanzo di maggior successo, La lunga vita di Marianna Ucr“a, sia una ragazza che non parla, come accadde a lei dopo il rientro in Italia dal campo di concentramento giapponese in cui era stata internata con la sua famiglia, profondamente antifascista. Aveva nove anni, un vestito prestato e niente altro se non la vita.
Da allora ha visto, scritto, vissuto, parlato, viaggiato. Ma il suo, oggi, non è un patrimonio di memoria, quanto di vitalità. Il suo sguardo azzurro continua a posarsi sulla
vita e le vite sapendo vederne le trame, avendo compassione dei fili spezzati.
Ora che il peggio sembra passato, ma il futuro è ancora incerto, dove siamo esattamente?
«In una terra di mezzo che, come tutti i periodi di passaggio, ci mette di fronte a un bivio. Da una parte c’è la strada del sospetto e dell’odio sociale, dall’altra quella della solidarietà e della comprensione. Io non posso che augurarmi, e fare di tutto, perché imbocchiamo la seconda via, ma non so se sarà così. La paura – e la pandemia ne ha creata tanta – fa emergere l’irrazionalità nelle sue forme più perverse e aggressive. Credo non sia un caso questo infiammarsi, proprio ora, del conflitto israeliano palestinese».
La cultura è un antidoto alla paura?
«La cultura è una palestra della libertà perché insegna a pensare con la propria testa, a usare la ragione, la logica, a confrontarsi con la memoria e la realtà».
Come e quando ha incontrato la cultura nella sua vita?
«Io sono stata fortunata perché sono nata in una famiglia che riteneva la cultura il valore più importante di tutti, e sono cresciuta in una casa in cui i libri erano il bene più prezioso. Quindi per me non è stato un grande sforzo abbracciarla, la cultura. Era piuttosto un istinto che poi, crescendo, è diventato consapevolezza».
Crede che per i ragazzi, oggi, sia sforzo, istinto? Crede sia – ancora – un valore?
«Io parlo spesso nelle scuole e quello che vedo mi dice che sì, è un valore. Soprattutto per le ragazze: avendo noi donne una storia che ci ha negato l’accesso alla conoscenza, siamo diventate determinate a entrare in quel mondo. Sappiamo da sempre che senza conoscenza non c’è libertà: la stanza tutta per sé di Virginia Woolf è lo spazio per coltivare se stessi, invece di stare al servizio della famiglia. Io credo che le ragazze, e anche i ragazzi ovviamente, siano fantastici, il problema è che la loro bellezza non viene raccontata perché è più facile che le pagine dei giornali siano occupate dalla minoranza che sfascia, bullizza, esclude, non sta alle regole».
Che cosa può fare la differenza tra i primi e i secondi?
«Gli insegnanti appassionati. Ho visto scuole sperdute in mezzo al nulla, posti dove non ci sono cinema né librerie, mettere in piedi progetti culturali di grande creatività grazie all’entusiasmo anche di un solo professore».
Lei ha vissuto a cavallo di due secoli profondamente
diversi. Che effetto le fa essere testimone di tante trasformazioni?
«I cambiamenti ci sono sempre stati, quello che è nuovo, ora, è la velocità a cui avvengono. Io sono molto aperta al cambiamento, mi spaventa, semmai, la rapidità, e nella misura in cui impedisce di valutare le conseguenze. Pensi solo a quello che stiamo facendo all’ambiente».
Si può tornare indietro?
«No, si deve andare avanti, cambiando direzione».
La velocità con cui le cose cambiano l’ha mai lasciata spiazzata, preoccupata di non avere le coordinate per interpretare il mondo?
«Io invecchio, non lo nego. Ma credo in un presupposto: sono i costumi che cambiano, l’uomo è sempre uguale. Se non fosse così non potremmo capire ed emozionarci per l’Odissea o Dante. Infatti è l’arte, in tutte le sue forme, a ricordarci che siamo esseri umani. Io non mi sento orfana delle ideologie che ho visto finire, una dopo l’altra, sotto i miei occhi, ma credo ci sia bisogno di un nuovo sistema di valori, il cui punto di partenza, per me, sta proprio nella sacralità dell’essere umano. E nell’uguaglianza e nel rispetto».
Chi incarna oggi questi valori?
«Molte realtà. Il grande esercito dei volontari, per esempio. In Italia sono circa 5 milioni e non se ne parla quasi mai. Preferiamo sempre mettere in luce i nostri difetti piuttosto che le nostre virtù, siamo campioni del mondo di autodenigrazione».
Ripartire dalla cultura è un bello slogan o un progetto concreto?
«Io la penso come Lévi-Strauss che ne Il crudo e il cotto diceva che cultura è tutto. Cucinare è cultura, usare il denaro pubblico è cultura, amministrare una città è cultura. Fare un caffè o un ponte è cultura. La cultura è qualcosa di molto concreto ed è da lì che si deve ripartire, con autostima e onestà».
Questo ottimismo è una conquista dell’età?
«Sono sempre stata così. Ma il mio ottimismo non dipende dal fatto che mi è andato tutto bene. Conosco il dolore, la povertà, la paura di morire. Ma ho avuto una madre che nel campo di concentramento, dove non ci davano cibo, ha avuto il coraggio di privarsi del poco che avevamo per fare uno sciopero della fame. E poi di improvvisarsi sarta: con le gambe paralizzate per la denutrizione, la ricordo che tagliava lenzuola e ne faceva camicie per i gendarmi che la ripagavano con un uovo, una patata, che noi dividevamo in cinque. Mi diceva, senza dirmelo, che di fronte all’orrore, alla pena e al dolore, bisogna rimboccarsi le maniche e andare avanti come si può».
È riuscita a metterlo sempre in pratica questo precetto?
«Se non l’avessi fatto, non sarei ancora viva». ➡ TEMPO DI LETTURA: 6 MINUTI
«Io non mi sento orfana delle ideologie che ho visto finire, una dopo l’altra, sotto i miei occhi, ma credo ci sia bisogno di UN NUOVO SISTEMA DI VALORI»