CIÒ CHE CI FA LIBERI
Da ragazzo, la cultura era la sua missione. Oggi che dirige la Mostra del cinema di Venezia, ALBERTO BARBERA vuole far «emergere il bello dal bombardamento di stimoli». Una sfida alla Davide contro Golia
Intervista ad Alberto Barbera
Scarpe grosse, cervello fino e campi a perdita d’occhio. «La prima libreria nella quale ho messo piede, un avamposto che avrei imparato a frequentare a lungo, si chiamava Giovannacci. Era a Biella, a pochi chilometri dal mio paese e all’inizio degli anni Sessanta, ai miei occhi, sembrava un luna park. Dove sono cresciuto, a Occhieppo inferiore, la parola cultura era legata all’attività della parrocchia. Un’alternativa, all’attivismo dei preti e della chiesa cattolica, semplicemente non esisteva». Da dieci anni Alberto Barbera, nato all’epoca in cui il tempo andava via in controluce e i bar erano il centro del mondo, dirige uno dei festival cinematografici più importanti del mondo. È figlio degli anni Cinquanta, di un tempo «in cui la televisione era un lusso per pochi e in oratorio correvamo ad assistere alle proiezioni dei film in 16 millimetri che il parroco, un prete illuminato con un’anima cinéphile, animava insieme a un piccolo cineforum». In un’Italia autarchica, come nei film di Moretti, al termine della visione «si teneva il temuto dibattito. A un certo punto, avrò avuto non più di 15 o 16 anni, l’organizzazione del cineforum e della discussione susseguente toccò a me. Avevo dimostrato passione per il cinema e per le riviste sulle quali nelle gite alla Giovannacci mi era caduto spesso l’occhio: giornali magnifici e oblunghi come Cinema e film, dietro ai quali c’era la mano di maestri come Adriano Aprà, e tanti altri tasselli che messi sulla tela, anno dopo anno, contribuirono a comporre il mosaico della mia curiosità e dei miei interessi».
Sono rimasti quasi gli stessi.
«Con un’ampiezza per allora inimmaginabile. All’epoca c’erano libri, riviste specializzate, qualche film di passaggio che discutendo con le distribuzioni provavo a far planare in provincia e un ottimismo della volontà che oggi è stato del tutto spazzato via da un’offerta di cui allora non sospettavamo neanche l’esistenza».
Quando sentì nominare per la prima volta la parola cultura?
«Forse mai. La cultura era un impasto di tante pulsioni, alcune assolutamente spontanee, non di rado legate a una solidarietà che in un Paese da poco uscito dal conflitto mondiale si risolvevano in consigli estemporanei figli
della voce a voce. Era un viaggio nella selva. Un orientamento senza bussola. Un’occasione nata quasi per caso. Mio zio per esempio faceva il cassiere del cinema e ogni tanto di straforo – bastava un’occhiata o un gesto rapido — faceva entrare me e mio fratello nella sala buia».
In famiglia? Arrivavano gli stessi suggerimenti occasionali?
«Mio padre lavorava in una tessitura perché a Biella, neanche a dirlo, quasi tutti lavoravano nelle fabbriche tessili. Non era un uomo di grande cultura, ma pur essendo largamente autodidatta ed essendosi fermato alla scuola di avviamento, era molto curioso, aperto e attivo: leggeva, dipingeva, cantava in un coro».
Aveva orientato i suoi interessi culturali?
«In nessun modo, né posso dire che mi abbia dato consigli, ma mi ha lasciato piena strada per sviluppare le mie inclinazioni. È cultura libertaria, in fondo, anche quella. Un humus. Qualcosa di ancestrale».
Quindi si è formato da solo.
«Mi sono formato da solo, senza dubbio, in maniera almeno inizialmente un po’ casuale. Una formazione partita da una rivista di una critica teatrale, letteraria e cinematografica di ispirazione certamente cattolica, ma di buon livello: non dogmatica comunque. Né dottrinale, né particolarmente ideologica. Poi c’erano i libri. Ha idea di cosa significassero per noi i libri?».
Me la dia.
«Andavamo in Francia da fermi, per sistemarci al limitare dei ponti levatoi. O in battaglia nei mari del Sud o ancora a esplorare sotto la nostra coperta la frontiera americana. Prima di arrivare a Steinbeck, a Hemingway o a Kafka, però, mi appassionai a Walter Scott, a Ivanoe, a Dumas. Di lui avevo scoperto in libreria, stipate nell’ultimo scaffale, delle edizioni molto economiche con le pagine da dividere con il taglierino. La sala cinematografica era la mia grande passione, ma non era una passione esclusiva. Leggevo moltissimo, ero un divoratore di libri, ne assorbivo due o tre alla settimana. Un po’ li prendevo io, un po’ me li regalavano. Regali importanti».
Cos’è oggi la cultura?
«Qualcosa di indefinibile. Ovviamente rispetto a ieri è mutato tutto. Sono cambiati gli strumenti e sono cambiati i mezzi su cui oggi scorre ciò che chiamiamo cultura. Sono cambiati i supporti, i riferimenti, i mediatori. Una volta la cultura passava attraverso poche chiese certe – cinema, tv, opera lirica, musica classica, musei – che oggi per fortuna hanno ancora un pubblico ed esistono, ma che si trovano a confrontarsi con l’immateriale. Nel 2021 gran parte della formazione culturale è in Rete e con questa realtà si devono fare i conti».
Sono conti in attivo o in perdita?
«Dirlo ti espone sempre al rischio dell’analisi superficiale. L’industria culturale di ieri in qualche modo forniva prodotti già selezionati e c’era una forma di istituzionalizzazione della cultura che ti consentiva di orientarti più facilmente e capire quali erano le cose significative. Oggi questo filtro è saltato completamente, l’accesso a una quantità di contenuti enorme è indiscriminato e indistinto e l’individuazione di una gerarchia di valori somiglia all’antichissima ricerca dell’ago nel pagliaio. Cosa è bello davvero? Come ci si difende dal bombardamento di stimoli? Come si sceglie ciò che è valido?».
Come?
«Con una battaglia di Sisifo. Uno scontro tra Davide e Golia non inutile, per permettere al bello – ce n’è tanto anche nell’ipermodernità naturalmente – di emergere. È come affrontare l’Everest senza bombole, ma è una sfida appassionante».
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un rifiuto della cultura calata dall’alto. Chi è cresciuto con la Rete ha optato per l’abbattimento delle statue di ieri. L’iconoclastia non ha risparmiato ciò che anche nel mondo culturale sembrava incrollabile.
«Si è sostenuto che un qualsiasi video prodotto dagli youtuber valesse quanto Philip Roth e non credo che questo sia un bene a prescindere. Certe cose girano più velocemente ed è vero, ma il resto, la cultura che richiede uno sforzo di comprensione, una fatica, un approfondimento, è ancora lì. Non va fatto appassire. Né marcire. Bisogna combattere per preservarlo».
È una battaglia persa?
«C’è una sproporzione di mezzi, ma se lo pensassi non sarei qui».
Dopo l’edizione fideistica dello scorso anno, che Festival di Venezia si aspetta?
«Lo scorso anno, dopo mesi di lockdown, abbiamo sfidato con coraggio la ragionevolezza e le incognite, e senza boria posso dire che è stata una sfida superata. Quest’anno, un anno in cui non c’è un regista che non abbia girato un film o un documentario, reduci da qualcosa che vogliamo ricordare ma al tempo stesso cancellare, ci aspettiamo di fare ciò che ci siamo illusi di fare lo stesso».
Ovvero?
«Essere liberi. La cultura è anche se non soprattutto speranza e fiducia nel futuro». ➡ TEMPO DI LETTURA: 7 MINUTI
«Si è sostenuto che i video di uno youtuber valessero quanto Philip Roth, ma ciò che richiede sforzo NON VA FATTO APPASSIREÈ