GIANNI BIONDILLO
Bottigliette Campari, mobili, giocattoli e tanti altri oggetti. A Rovereto, CASA DEPERO ci trasporta nel mondo tridimensionale di un artista che con il proprio estro trasformò di tutto. Persino panciotti e gilet
Milanese, scrittore, è docente all’Accademia di Architettura di Mendrisio. Ultimo libro:
Lessico metropolitano.
éstata l’ultima cosa che ho visitato prima del lockdown. Ero con mia moglie a casa di amici trentini. Un momento tutto nostro, fra laghi, boschi, passeggiate in centro. E una puntatina da qualche parte nei dintorni. Così fu, ormai più di un anno fa: un giro al Mart, come di prassi e, già che c’era il tempo, un salto a Casa Depero. Ho da sempre una passione per il Futurismo, ne ho scritto in ogni forma. A ben vedere, da ragazzo, ben prima di Boccioni o Balla, fu proprio di Depero la prima opera di un futurista che toccai con mano: la mitica bottiglietta del Campari, l’unica al mondo, assieme a quella della Coca Cola, che non ha bisogno di etichette. La vedi e sai già cos’è. Puro genio.
L’Italia è capace di generare, in posti dove meno te li aspetti, conciliaboli di menti creative, piccole Atene di artisti. Così fu per la Rovereto d’inizio secolo, dove nel volgere di una manciata d’anni nacquero architetti (Gino Pollini, a sua volta padre del pianista Maurizio), compositori (Riccardo Zandonai), critici d’arte (Carlo Belli), scultori (Carlo Fait e Fausto Melotti), pittori (Tullio Garbari), designer (Luciano Baldessari). Solo a snocciolarne l’elenco fa girare la testa. Molti di questi avevano
frequentato lo stesso istituto d’arte, la Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, molti erano imparentati fra loro, di certo tutti frequentavano la casa di Fortunato Depero. Casa che da subito voleva portare, come da manifesto futurista, l’arte nella vita quotidiana. Era, insomma, un focolaio vitale, non un mausoleo autoreferenziale. Oggi fa specie pensare che sia l’unica vera casa-museo di un artista futurista in Italia. Che ne è della casa di Marinetti a Roma? Entrarci, per me, è sempre una sorpresa. Non solo per i dipinti, ma per la pletora infinita di oggetti di arte applicata che Depero ha saputo produrre negli anni: disegni, collage, arazzi, manifesti, locandine, tarsie, mobili, giocattoli, bottiglie… ogni volta una nuova scoperta, ogni volta un’emozione. Depero fu una vera testa di ponte fra il primo Futurismo «milanese» – quello «eroico» degli artisti caduti in guerra – e il secondo Futurismo «romano» più compromesso col regime, movimento che frequentò riuscendo sempre, grazie a una sua innata ironia, a evitarne la magniloquenza. Il suo spirito internazionale lo portava in giro per l’Italia e il mondo. Tentò l’avventura dell’arte a New York ben prima che lo facessero, decenni dopo, gli artisti del dopoguerra.
Depero, a parole, era per una «ricostruzione futurista dell’universo», nei fatti, con la concretezza dell’uomo di provincia, gli bastava occuparsi di scenografie, pubblicità, copertine per Vogue o il Vanity Fair, persino panciotti e gilet. Il suo allineamento col regime era quello che era. Con onestà quasi sfacciata non ebbe paura ad ammettere che lui (all’italiana) fu fascista perché aveva pur «bisogno di mangiare».
Lontani da quelle temperie, oggi, possiamo tornare a visitare casa sua. Anche per scoprire il nuovo allestimento. So di un incredibile plastico – Depero. 1929 Drama – che ricostruisce, in 3D, la New York dei suoi disegni, fatto con mesi di lavoro paziente da Gaetano Cappa. Sarebbe bello, ora che tutto pare si stia rimettendo in moto, tornare a Casa Depero. Per ricominciare, anche per me. Finalmente.
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