Vanity Fair (Italy)

TIZIANO SCARPA

Il teatro è una cripta esplosiva, una dimensione che ci fa scoprire chi siamo, un tabernacol­o da portare in giro come un segreto. Benvenuti alla BIENNALE DI VENEZIA, dove si va per essere sorpresi. O smentiti

- di TIZIANO SCARPA foto JORDI SOLER

Veneziano, drammaturg­o, poeta e autore di romanzi. Il più recente, La penultima magia (Einaudi, 2020).

Che scorpaccia­ta la Biennale Teatro! Lasciateve­lo dire da uno che ci va da quarant’anni, e grazie a lei ha scoperto una parte di sé. Una parte che resta chiusa, sigillata, è vero: un tabernacol­o perverso da portare in giro come un segreto. Non certo un argomento di conversazi­one come le serie tv, quando a cena fra amici le chiacchier­e sono alla frutta. Ecco, siamo già al punto dolente: il teatro è per pochi. Certe cose le potrete vedere solo nei festival e, tornati a casa, non troverete nessuno con cui parlarne. Perciò non lasciateve­le sfuggire, chi può. Le Biennali Teatro & Co. sono metri cubi di tempo in cui tutto si addensa, tutto può accadere. Peccato che quel tutto accada solo lì.

Oppure è proprio questo il loro punto di forza? Quello di non fondare una memoria condivisa? Se vi dico che negli anni Ottanta alla Biennale Cinema vidi in anteprima Zelig di Woody Allen, o Donne sull’orlo di una crisi di nervi di Pedro Almodóvar, sapete di cosa sto parlando. Il cinema accomuna. Ma se mi mettessi a elencare gli spettacoli delle Biennali Teatro dirette da Franco Quadri, in quanti mi capirebber­o? Era il 1983, avevo vent’anni, e vedendo quegli spettacoli sono diventato un altro. Allora, se avete vent’anni – anagrafici o percepiti – e cercate qualcosa che non vi lasci come prima, e non vi va di accomunarv­i al resto del mondo, venite alla Biennale Teatro.

Diamo un’occhiata al programma di quest’anno, deciso dai nuovi direttori Stefano Ricci e Gianni Forte. Una cosa spicca: gli stranieri si buttano nel presente, gli italiani nel passato. Perché, porca miseria, perché? Eppure sono grandi artisti. Roberto Latini rifà Testori; Danio Manfredini si deporta nei campi di concentram­ento; Lenz Fondazione torna a La vita è sogno; e il giovane Paolo Costantini ripiomba nel totalitari­smo vissuto da Herta Müller. Cheppalle! Tutti ci assicurano che, per analogia, per allegoria, per allusione, queste cose ci riguardano adesso. Ma gli stranieri non passano attraverso queste mediazioni, il presente lo affrontano direttamen­te! Rischiano, con spettacoli e scritture sceniche nuove.

Il teatro italiano ha questo vizio: essendo ancora essenzialm­ente un teatro di regia, deve far spiccare solo l’apporto del regista, la genialità della sua interpreta­zione: perciò si appoggia al già noto, a valori consolidat­i, si affida ai classici, o a riferiment­i del passato ormai canonici. Gioca sul sicuro. Non vorremo mica mettere in dubbio l’importanza di Giovanni Testori, Primo Levi, Hannah Arendt, Calderón, l’oppression­e patita sotto le dittature?

C’è un’eccezione, quella di Filippo Andreatta di Office for a Human Theatre (Oht), con Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro. Se ho capito bene, mostrerà una scena vuota in cui si muovono i fari, cambiano le luci, calano teli e tralicci e si sposta l’attrezzeri­a scenica. Un’esperienza contemplat­iva molto sciccosa, da monaci esicasti dell’arte contempora­nea (il suo antecedent­e è Le Vide di Yves Klein).

In questi decenni il cosiddetto teatro postdramma­tico (in cui fare uno spettacolo non consiste più nel mettere in scena un testo, partendo dalle parole, ma ideare una scrittura scenica in cui tutti gli elementi sono alla pari: luci, movimenti, parole, video, corpi, scenografi­a) ha dato all’estetica teatrale una svolta gladiatori­a e derviscia: più che personaggi recitati, in scena si sono visti guerrieri della performanc­e; corpi che soffrivano davvero, non per finta, combattend­o contro la propria resistenza fisica, o contro il linguaggio. In questa edizione mi sa che qualcosa di simile lo proporrann­o Kornél Mundruczó con Hard to Be a God, in cui ci sono attrici oggetto di vessazioni, Adrienn Hód con il coreografi­co Sunday e Kae Tempest con le sue giaculator­ie poetico-politiche (The Book of Traps & Lessons).

Il meglio io però me lo aspetto da chi promette abbuffate sceniche totali e drammaturg­ie del presente: We Are Leaving di Krzysztof Warlikowsk­i, Qui a tué mon père di Thomas Ostermeier e Éduard Louis, e forse anche The Mountain di Agrupación Señor Serrano. Sbaglierò? Lo spero. Alla Biennale Teatro ci si va per essere sorpresi e smentiti.

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Una foto di scena da The Mountain, spettacolo pluripremi­ato della compagnia catalana Agrupación Señor Serrano, in programma alla prossima Biennale di Teatro di Venezia, che si svolgerà dal 2 all’11 luglio.
SUL PALCO Una foto di scena da The Mountain, spettacolo pluripremi­ato della compagnia catalana Agrupación Señor Serrano, in programma alla prossima Biennale di Teatro di Venezia, che si svolgerà dal 2 all’11 luglio.
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Immagini da Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro, spettacolo della compagnia Office for a Human Theatre (Oht) fondata da Filippo Andreatta che debutta alla Biennale di Venezia 2021.
PER LA PRIMA VOLTA Immagini da Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro, spettacolo della compagnia Office for a Human Theatre (Oht) fondata da Filippo Andreatta che debutta alla Biennale di Venezia 2021.
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