ILARIA TUTI
Hanno una storia antica, un idioma conservato grazie a secoli di isolamento e il Püst, un carnevale ricco di simboli della natura che rinasce dopo l’inverno: sono gli abitanti della VAL RESIA, un microcosmo che rischia di scomparire
Di Gemona del Friuli, scrittrice. Ha creato il personaggio del commissario Teresa Battaglia, protagonista anche dell’ultimo romanzo Figlia della cenere.
La Val Resia è ancora una terra misteriosa, che ho scoperto chiamata tra i suoi boschi dai racconti sulla parlata particolare dei nativi. Nascosta allo sguardo dalle Prealpi Giulie, in Friuli, la si raggiunge costeggiando il corso dell’omonimo torrente, tra massi erratici, duri come il carattere che serve per restare.
Il corso d’acqua si chiama Wöda in resiano, un antico idioma protoslavo dichiarato a rischio di estinzione dall’Unesco. Una lingua a tutti gli effetti, parlata da una stirpe indipendente dal punto di vista glottologico, come affermò il celebre linguista Eric P. Hamp. Per questo riconoscimento, i resiani stanno combattendo da anni, assimilati per errore agli sloveni.
«Ci stanno cancellando», mi hanno detto, aprendomi le porte delle loro case e della speranza di avere finalmente voce, consci che una cultura chiamata con un nome inesatto è di per sé polvere. Storia antica, la loro. In seguito a secoli di isolamento, la Val Resia è stata a lungo un’isola genetica perfetta. La sola scintilla di comunanza genetica è stata trovata sulle sponde del Lago Aral, da dove si pensa siano arrivati attorno al VI secolo d.C., seguendo carovane di guerrieri unni e avari. Oggi, le borgate che compongono il comune diffuso rispecchiano le tribù primigenie. È con emozione che i resiani mi hanno raccontato che Ella von Schultz Adaïewsky, musicologa russa, nel 1897 scrisse di aver già sentito una nenia resiana, prima di visitare la valle: nel villaggio mingrelo di Tsaesci, nel Caucaso. Quella nenia mi è parso di sentirla.
L’eredità atavica di queste genti l’ho respirata nei canti e nei balli, durante il Püst, il loro Carnevale, al suono della zïtira e della bünkula. Ho ammirato la fierezza delle donne vestite di candidi abiti a balze, ornati da nastri e campanellini, e un copricapo di fiori. Donne fondamentali per la valorizzazione del territorio, grazie a imprese che si occupano della raccolta delle erbe spontanee, come la borragine e la silene usate per il ripieno dei calcüne, o dello strok, l’aglio resiano, rosso e dolce, peculiarità dovuta all’isolamento e Presidio Slow Food, con cui si prepara la zuppa di carota selvatica e una delicata crema di scapi. Pietanze semplici e speciali allo stesso tempo, che ho gustato invitata alle loro tavole, grata per l’accoglienza fiduciosa.
In questo lembo di terra è custodito il microcosmo di un’intera nazione che lotta per il riconoscimento della propria identità e che fa parte della meravigliosa varietà di cui è fatta l’Italia. Una molteplicità che appartiene a tutti e che deve essere tutelata.
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