VIOLA ARDONE
Non solo straordinaria testimonianza di un passato lontano, le rovine di POMPEI ci parlano anche del nostro presente. Ricordandoci la bellezza della vita
Napoletana, scrittrice e insegnante. Il suo ultimo romanzo è Il treno dei bambini (Einaudi, 2019).
IImmagina una città: strade che si incrociano come assi cartesiani, ville signorili adornate da preziosi mosaici e coloratissimi dipinti, caseggiati popolari ricoperti da insegne pubblicitarie, manifesti elettorali e graffiti dei passanti, stabilimenti termali per l’igiene personale e i momenti di relax, take away fornitissimi agli angoli di strada per lo street food. Immagina teatri, templi, palestre, botteghe di artigiani, panetterie, taverne, tintorie, una piazza in cui si tiene il mercato e un’altra dove si svolge la vita sociale e si combinano gli affari. Immaginala non lontana dal mare, piccola ma non piccolissima, una città di provincia di circa trentamila abitanti ma ben collegata con la capitale, con l’orizzonte delimitato dal Vesuvio ma al tempo stesso parte di un impero che si estende dalla Spagna alla Siria. Immagina bianche strade lastricate da grandi blocchi di pietra ovalizzati dal tempo e dalle intemperie, uomini eleganti, donne ingioiellate, bambini che giocano e un cane che fa la guardia alla villa del suo padrone, la cui presenza è segnalata da una targa su cui è scritto cave canem, «attenti al cane».
Ora guarda l’orologio: immagina che tra poche ore questa città non ci sarà più. Immagina che sia la notte tra il 24 e il 25 agosto del 79 d.C. e che già da alcuni giorni sulla cittadina abbia iniziato a venir giù una lenta pioggia di cenere. Immagina che qualcuno sia partito, che abbia momentaneamente abbandonato la sua dimora per farvi ritorno al più presto, e che molti altri invece siano rimasti, perché quella radice che ci tiene legati alla nostra terra può a volte diventare una condanna. Immagina che questa fedeltà un po’ ottusa alla propria casa – o più semplicemente l’insipiente negazionismo di un pericolo annunciato e sottovalutato – sia rimasta fotografata a distanza di quasi due millenni dai calchi in gesso di coloro che, sorpresi dal disastro, non fecero più a tempo a mettersi in salvo.
Immagina, infine, che quella città sommersa esista ancora, come una Atlantide rediviva, e che ci offra l’illusione molto realistica di passeggiare tra le sue viuzze, visitare le sue case, conoscere i suoi abitanti.
Pompei antica è un manuale di vita e di morte. Vi passa tutto per quelle strade: amanti sfortunati che tracciano incisioni sui muri a testimonianza del loro tormentato amore, piccoli monelli che giocano a lasciare impronte dei loro piedini sulla calce fresca nell’atrio di una elegante abitazione, raccapriccianti strumenti medici nello studio di un dottore, diversi utensili da cucina, tra i quali un porta-uovo identico a quelli ancora in uso, scritte oscene e simboli sessuali per indicare la prossimità di una casa di piacere, anfore disposte ordinatamente nel bancone di un thermopolium, l’antenato latino del fast food, ancora piene di olio, legumi o garum, la salsa a base di pesce fermentato che deliziava quei rudi palati. La vita, come la conosciamo noi, in tutte le sue manifestazioni, a ricordarci che è più forte del disastro, in ogni tempo. E poi la morte: uomini e donne in fuga, altri sorpresi nell’incastro amoroso della passione, una madre in attesa, con le braccia incrociate sul ventre gravido, il tale seduto con la testa tra le mani a fare i conti con l’ineluttabile, piccoli
o grandi tesori nascosti o sotterrati nella speranza di far ritorno alla propria abitazione, i resti di una vita che si immaginava dovesse scorrere sempre in un verso e mai arrestarsi, non così bruscamente, per lo meno.
Pompei è tutto questo e anche di più: perché un terzo della città rimane ancora da scavare e perché altri resti, portati alla luce a partire da fine Settecento, rischiano di franare per l’incuria umana e la caducità del tempo. Pompei è un’illusione, quella di poter far guerra allo «sterminator Vesevo», lo stesso che veniva spiato con apprensione da Leopardi nel corso della sua permanenza presso la cittadina vesuviana di Torre del Greco. Pompei è la consapevolezza di uscire sconfitta da quella battaglia, eppure uscirne viva, in qualche modo.
La Villa dei Misteri, la Casa del Fauno, la Via dell’Abbondanza, le Terme Stabiane, la Casa del Poeta tragico, la Porta Marina sono i nomi moderni, dati dagli archeologi – Amedeo Maiuri, primo tra tutti – che hanno liberato il passato, pietra per pietra, per restituirlo al presente e magari al futuro. Per questo Pompei è una città che ha almeno due vite: una nel mondo antico, il tempo remoto in cui quelle ville e quelle strade avevano un altro nome, che forse non conosceremo mai, e l’altra ai giorni nostri, in cui attraverso quelle case scoperchiate e senza tetto, orbe di vita attuale e traboccanti di vita vissuta, ricostruiamo una certa idea del mondo antico e siamo in grado di soddisfare l’ingannevole ambizione di abitare il passato. E infine c’è la città moderna, la Pompei attuale, che, come le altre sue colleghe che sorgono sulle pendici del Vesuvio, si estende per chilometri e chilometri di caseggiati frutto di una speculazione edilizia incurante della minaccia silente che pure aleggia ancora. Come se quella scura montagna avesse smesso di sobbollire nel profondo. Come se dovesse fornire ancora prove della sua potenza distruttrice.
Visitare Pompei vuol dire percorrere una terra liminare sul filo ambiguo del passato.
E allora, parti: cammina lungo Via dell’Abbondanza, osserva le facciate delle case, le taverne, le botteghe, il dorso convesso della strada che muta nel procedere, i sistemi per il rallentamento del traffico, i metodi per bloccare il flusso delle acque, i fori ai lati dei marciapiedi per legare gli animali, entra in ogni casa che troverai aperta e prova a evocarne i suoni e i rumori. Poi chiudi gli occhi e immagina che il cielo si faccia nero all’improvviso e tutte le tue certezze si incrinino nel giro di pochi minuti.
Infine respira, apri di nuovo gli occhi e guardati intorno: quelle antiche pietre, rimaste nascoste per mille e settecento anni e poi lentamente riportate alla luce, sono ancora lì, continuano a raccontarti una storia millenaria, ti insegnano a resistere alla forza selvaggia e indomita della natura. Loro sono rimaste in piedi, e tu sei ancora vivo.
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