DANIELE CIPRÌ
Il cinema si può fare ovunque: non per i cellulari, ma perché serve la testa. Un MAESTRO racconta che cosa insegna ai ragazzi di Palermo
Di Palermo, regista, sceneggiatore, è al cinema con Il cattivo poeta, di cui ha curato la fotografia. Per Netflix ha lavorato alla serie Zero e sta terminando Incastrati.
Imiei genitori vivono a Palermo, un luogo a me sacro, dove ho vissuto quarant’anni e poi me ne sono andato. Adesso sono qui, a casa loro, casa mia, per due mesi: giro la serie Netflix di Ficarra e Picone. «Che, prendi l’albergo?», mi ha chiesto mia madre. «No», ho risposto. È bello stare con i miei, ritrovarli, soprattutto ora, all’epoca della pandemia. Rosi e Franco si sono spaventati, ma il Covid, diciamolo, è solo la fine del mondo immaginata. A loro dico: pensate se un vulcano esplodesse o arrivasse un meteorite, basta un secondo, e non esisti più. Che cosa è meglio? In molti, l’apocalisse, non l’abbiamo ancora vissuta davvero. Però questo tempo ci è servito ad allenare un muscolo fondamentale: l’immaginazione. La stessa che mi ha sempre accompagnato nel lavoro di regista e direttore della fotografia. Un mestiere che non ho mai sognato di fare, è stato un destino. Sono figlio di un artigiano. Mio padre riparava macchine fotografiche. Sono quindi nato «dentro» al meccanismo della tecnica filmica. Non sono figlio d’arte ma di mestiere: crescendo, con papà ho iniziato a filmare le famiglie, anche i funerali – ho fatto la fotografia dei vivi e dei morti, ho una miniera antropologica da cui pescare. E poi mi sono innamorato della cinematografia, delle immagini in movimento, c’erano i cineclub, si vedevano rassegne, si discuteva, tra film belli, brutti, europei, americani. Anche se la mia era stata terra di grandi case di produzione, negli anni ’70 ero prigioniero della provincia, non c’era più nulla di tutto questo, ma stavano arrivando le prime tv private. Papà ha così acquistato una rete, ma io sono partito a militare. Ero bersagliere assaltatore, ma scoprendo che sono fotografo, mi fanno lavorare per l’ufficio stampa dell’esercito: filmavo le cerimonie militari. Grazie a quel lavoro ho conosciuto persone importanti, da Claudio Gubitosi, direttore del Festival di Giffoni, a François Truffaut, e poi Franco Maresco, con cui è iniziato un sodalizio che ci ha portati da Cinico Tv a Totò che visse due volte. Quelle sperimentazioni strane in bianco e nero erano il desiderio di proiettare il mio immaginario, che nutrivo sin da piccolo, quando andavo a vedere il teatro dei pupi: il cunto è un personaggio che va su un palcoscenico e racconta una storia di battaglie, ma senza immagini, ti devi immaginare tutto. Da Orlando e Rinaldo sono arrivato a Cagliostro. Mia madre guardava Cinico Tv e mi diceva: io non capisco le tue cose. Andava bene, perché il cinema non deve spiegare nulla, è un’opera d’arte senza i perché e i per come. Eppure io, che sono contrario alle formazioni, penso invece che in questo momento la scuola sia fondamentale. Bisognerebbe istituire «l’ora di cinema», dove reimparare a discutere. Con la scuola di cinema indipendente Piano Focale, qui a Palermo, ho lavorato con i ragazzi a un episodio del mio film sull’immaginario cinematografico: non mi sento un maestro ma uno di loro, e cerco di trasmettere le mie ex impossibilità, tutti gli ostacoli che ho dovuto superare. Vorrei far capire loro – anche se sono molto più intelligenti di me – che questo lavoro è artigianale, e va giocata la carta più forte, quindi il saper immaginare, fregandosene del calcolo matematico.