Vanity Fair (Italy)

EDITORIALE di Simone Marchetti

- di SIMONE MARCHETTI Buona lettura

Non saremo più liberi di parlare». È una delle frasi come una minaccia alla libertà. La si ascolta

più incoerenti e ipocrite che ripete chi vede la diNversità a proposito del Ddl Zan. La si grida nelle arene tv contro le storie di transizion­e sessuale o di identità di genere. La si legge sui social quando si parla di razzismo, di disabilità ma anche di violenza sulle donne. L’assurdo di questo assunto, poi, arriva al paradosso quando si sostiene che nelle scuole verrà insegnata solo la «teoria gender» (che cosa voglia dire, poi, non si capisce) e che tutte le favole dei bambini verranno cambiate in una sola direzione, quella LGBTQ+.

Bene, la verità è l’esatto opposto. Fino a oggi, infatti, favole, storie e insegnamen­ti sono stati tutti a senso unico: un uomo e una donna. Un principe e una principess­a. E vissero tutti felici e contenti. Ma questa non è libertà: questo è un mondo senza sfumature, senza diversità, senza ricchezza. Un mondo pieno di lacune.

In occasione del mese del Pride, abbiamo voluto questo numero per riflettere sulla ricchezza della diversità e per riempire le lacune nel racconto di chi siamo, di come viviamo, di quanto possiamo essere migliori. È un lungo viaggio illuminato da tante storie, non solo della comunità LGBTQ+, ma di chi ha imparato a vivere la diversità, qualsiasi diversità, come la migliore ricchezza per rendere tutti migliori e più umani.

Due brevi citazioni dalle tante storie che troverete in questo numero.

«Non avrò avuto neanche sei anni e già non tolleravo le rigide distinzion­i tra maschile e femminile», racconta Victoria dei Måneskin. «Ho sempre avuto idee molto forti su come volevo essere. Rifiutavo cose tipicament­e definite da bambina, e intorno mi prendevano in giro perché andavo sullo skate, giocavo a calcio, non indossavo gonne. Mi stavo dando la chance di essere come desideravo. Un po’ l’ho subito, un po’ l’ho sofferto, ma ho avuto il coraggio e oggi grazie a quel coraggio so che potevo rimanerci molto più ferita, o avrei rischiato di lasciare ad altri la decisione più importante: quella su di me».

«Per aiutare i miei figli a capire la malattia del terzogenit­o, ho trasformat­o un bambolotto inserendog­li una tracheotom­ia», confida Cristina Sarra, madre di Emanuele, 8 anni, affetto da una grave malattia degenerati­va. «È stato un passaggio fondamenta­le per fargli avere consapevol­ezza del percorso del fratello. Ricordo che quando aveva 6 anni, mia figlia Noemi mi ha chiesto: Emanuele quando riuscirà a camminare? Allora le ho spiegato che lui non poteva migliorare. Lei stava imparando a fare la ruota, quindi le ho detto: come te, se riesce, saremo contenti, se non ci riesce gli vogliamo bene lo stesso. Questa cosa l’ha molto rassicurat­a e non mi ha più chiesto altro».

Ecco, nel caso di Cristina ed Emanuele direbbero che «non saremo più liberi di parlare» perché «d’ora in poi dovremo raccontare solo storie di bambolotti con la tracheotom­ia». Che grande sbaglio, che grande bluff: d’ora in poi ci saranno anche storie di bambolotti con la tracheotom­ia e NON SOLO storie di bambolotti senza.

In quel NON SOLO ci sono l’amore, l’affetto, l’empatia, la compassion­e e ancor di più la libertà di cui abbiamo bisogno. Perché la diversità riguarda tutti. Perché nessuno, in fondo, è normale. E perché, alla fine, quel «gli vogliamo bene lo stesso» è l’insegnamen­to più grande e anche il miglior finale. Altro che «vissero tutti felici e contenti».

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