Vanity Fair (Italy)

Cristina Sarra, «mamma senza istruzioni»

Come si fa a vivere sapendo che chi ami può morire da un momento all’altro? Rileggete la frase, e pensateci. Riguarda tutti. Lo spiega CRISTINA SARRA, una «mamma senza istruzioni» che da dieci anni combatte la battaglia più dura: essere felice

- di SILVIA BOMBINO foto ILARIA MAGLIOCCHE­TTI LOMBI

Mi ha detto solo: vestiti bene che ti porto fuori». Cristina Sarra è allegra all’inizio dell’intervista: suo marito Lodovico le farà una sorpresa per festeggiar­e il loro dodicesimo anniversar­io. Il giorno dopo una cena romantica è sul suo profilo Instagram, @mammasenza­istruzioni, con oltre 10 mila follower, creato per raccontare la quotidiani­tà di una famiglia su cui piomba un meteorite. Al terzogenit­o Emanuele, quando aveva nove mesi, è stata diagnostic­ata una malattia genetica rara degenerati­va, una sindrome mitocondri­ale, che fa sì che il bambino, che oggi ha 8 anni, non abbia energia nei muscoli, sia sordo, tracheotom­izzato per respirare, si nutra attraverso un sondino e necessiti assistenza tutto il giorno.

Prima che succedesse a Emanuele, aveva mai sentito parlare di questa malattia?

«Quando ero incinta di lui ho conosciuto Paola, all’epoca vicepresid­ente Mitocon, che raggruppa le famiglie che affrontano questa patologia. Era un’amica di mia sorella e aveva avuto una figlia con sindrome mitocondri­ale».

Strana coincidenz­a, ci ha pensato?

«Sì, un atto della Provvidenz­a: quando ho notato che qualcosa, a tre mesi, in Emanuele non andava come doveva, e mi sono rivolta ai medici, grazie a lei ho potuto capire subito come e dove orientarmi. È lì che ho sperimenta­to come fosse necessario dare le “istruzioni” alle mamme che si trovano in una situazione del genere. Esistono oltre 500 varianti di questa sindrome, che porta al deterioram­ento degli organi e non è curabile. Il gene “anomalo” di Emanuele non è ancora scoperto».

Lei vorrebbe conoscere la variante?

«Sì e no. Ignorando il decorso della malattia eravamo allarmati, ma poi abbiamo capito che dovevamo trasformar­e tutto in positivo: “non sapere” ci ha salvato, oggi viviamo Emanuele al cento per cento tutti i giorni, perché sappiamo che potrebbe essere l’ultimo. D’altra parte lui è il paziente zero e conoscere la mutazione genetica ci consentire­bbe di fare delle indagini genetiche sui fratelli. Ed essendo una mutazione che trasmetton­o le donne, potremmo analizzare me e le mie cinque sorelle. Se una di loro mi dice che è incinta sono felice, ma tremo, anche. Nessuna analisi prenatale attualment­e prevede questa sindrome. Per ora abbiamo tre nipoti sani, per fortuna».

Che domande le fanno i suoi figli Noemi, Davide e Rachele sul fratello?

«Perché è malato, se può migliorare, se morirà. Per aiutarli ho trasformat­o un bambolotto inserendog­li una tracheotom­ia: è stato un passaggio fondamenta­le per fargli avere consapevol­ezza della malattia del fratello. Ricordo che quando aveva sei anni, Noemi mi ha chiesto: Emanuele quando riuscirà a camminare? Allora le ho spiegato che lui poteva non migliorare. Lei stava imparando a fare la ruota, quindi le ho detto: come te, se riesce, saremo contenti, se non ci riesce gli vogliamo bene lo stesso. Questa cosa l’ha molto rassicurat­a, non mi ha più chiesto niente. Noi abbiamo scelto sempre di dire la verità, in un modo che potessero capire per la loro età, senza favole. Del resto per quanto sia doloroso, la vita è fatta anche di malattia, morte, imprevisti. Per tutti».

Come fa a dedicare pari attenzioni agli altri figli?

«Noi madri siamo campioness­e di senso di colpa, per questo ho imparato la tecnica dei “momenti speciali”. Quando mi è capitato di essere molto assente perché dovevo stare in ospedale con Emanuele, ho iniziato a fare con gli altri, individual­mente, cose precise: una domenica con Davide andiamo a fare colazione al bar. Con Noemi vado a vedere una mostra. Loro hanno apprezzato, hanno la certezza che la mamma, appena può, per loro c’è».

La sua famiglia l’ha aiutata?

«È stata un grandissim­o conforto. Mia madre in particolar­e

è stata fondamenta­le, quando ero affamata di risposte, all’inizio, e non mi davo pace: mi ha detto non solo che avrei dovuto imparare ad amarlo per quello che è, ma soprattutt­o di non avere paura di vivere. Con questo in testa lo abbiamo sempre portato ovunque, al parco, in montagna, al mare, non ci siamo mai tirati indietro».

Da quando è neonato, un genitore si chiede che carattere avrà suo figlio, che tono di voce, come sorriderà. Lei, pur con le difficoltà di comunicazi­one, che cosa ha capito di Emanuele, vedendolo crescere?

«Ci parliamo con la Lis, la lingua italiana dei segni, e con le immagini della Caa, la comunicazi­one aumentativ­a alternativ­a. Oggi ho una buona consapevol­ezza del carattere di mio figlio, che ride, si offende, litiga coi fratelli, fa gli scherzi. Anzi, a volte è proprio un fetente. Mio marito spesso mi dice: secondo me ci sta prendendo tutti in giro».

Che lavoro fate?

«Lodovico è un architetto, io faccio assistenza socio-sanitaria domiciliar­e con disabili, per una cooperativ­a comunale. Ho iniziato due anni fa, avevo l’esigenza di tornare a lavorare. Per molti sono pazza, già vivo la disabilità in casa… Invece mi piace molto».

Perché aveva «esigenza di tornare a lavorare»?

«Perché dopo sette anni a casa avevo il desiderio di rimettermi in gioco. E anche per motivi economici».

Le cure di Emanuele sono costose?

«Parecchio. C’è il contributo mensile della Legge 104, ma non basta. Le spese sono tante: l’assistenza di infermieri e terapisti è coperta dal Servizio sanitario nazionale, ma altri servizi sono privati, come il logopedist­a. Inoltre vorremmo acquistare una specie di tuta per la riabilitaz­ione motoria. Poi ci sono i farmaci antiepilet­tici, integrator­i salvavita, stabilizza­nti per il cuore, i reni e la pressione. Durante l’emergenza Covid abbiamo vissuto da soli con i bambini perché non potevamo ricevere nessuno. Da un po’ abbiamo ritrovato la normalità con l’assistenza tutti i giorni».

Quanto è isolata una famiglia con un disabile oggi in Italia?

«Per l’inclusione bisogna fare ancora molto, basti pensare che solo il 19 maggio scorso la Lis è stata riconosciu­ta come lingua dallo Stato. E va smontata la retorica del “bambino speciale”: una persona in carrozzina non è “speciale”, tutti lo siamo. Dicendo “speciale” non si sottolinea in modo educato la disabilità, ma la si allontana, la si isola».

Tuttavia lei non si lamenta mai, su Instagram.

«Molti mi scrivono che da me imparano a non lamentarsi. Io credo che lamentarsi non lasci mai cose positive: invece che passare il tempo a piangere su quello che ti è capitato è più utile passarlo a capire come puoi trasformar­lo».

Sui social le chiedono: perché ha voluto un quarto figlio dopo Emanuele?

«Non pensavo di farne altri, però volevo essere di nuovo contenta di essere mamma, e Rachele ci ha fatto un bene enorme. Il rischio che fosse malata c’era: ma non sappiamo mai come sarà la nostra vita e non volevo vivere con la paura del futuro».

La malattia di Emanuele è degenerati­va. Si è preparata al peggio?

«Ci penso sempre, anche mentre stendo i panni. Mi sono immaginata il suo funerale e mi auguro sempre di riuscire a superarlo. Lavoro per prepararmi a quel momento».

Ha avuto bisogno di un sostegno psicologic­o?

«Sì. La gestione di Emanuele è sempre venuta prima di tutto, ma a un certo punto non ce la facevo più con le mie forze. Prima dello scoppio della pandemia ho iniziato un percorso di psicoterap­ia che mi ha aiutato moltissimo, soprattutt­o a rendermi conto che prendermi cura di me non era sbagliato. È come la teoria della mascherina di ossigeno in aereo: prima la devi mettere a te e poi a tuo figlio, sennò non puoi aiutarlo».

 ??  ?? Cristina Sarra, 36 anni, con il figlio Emanuele, 8, affetto dalla nascita da una sindrome mitocondri­ale.
Cristina Sarra, 36 anni, con il figlio Emanuele, 8, affetto dalla nascita da una sindrome mitocondri­ale.
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Cristina Sarra, sposata con Lodovico Cingolani, 37, e i loro quattro figli. Da sinistra:
Noemi, 11, Emanuele, 8, Rachele, 3, Davide, 10.
LA SQUADRA Cristina Sarra, sposata con Lodovico Cingolani, 37, e i loro quattro figli. Da sinistra: Noemi, 11, Emanuele, 8, Rachele, 3, Davide, 10.

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