Trasforma la sua vita in canzoni
Quando era adolescente, gli diceva che era brutto. Oggi gli raccomanda di amare se stesso. Da sempre, MARCO GUAZZONE trasforma la sua vita in canzoni
La pagina su Wikipedia recita: «Marco Guazzone nasce nel 1988, di origini caraibiche». Caraibiche? No, non è vero. «È uno scherzo che mi hanno fatto dei tizi di una radio che mi stavano intervistando e pensavano che fossi piemontese.
Io gli ho risposto che allora, potendo scegliere, avrei preferito avere discendenze caraibiche e loro lo hanno scritto su Wikipedia», spiega. Marco Guazzone è invece romano da generazioni, quartiere Esquilino, la prima Chinatown italiana, a due passi dalla stazione Termini, dove i veri viaggiatori vanno e vengono. Lui racconta di viaggiare spesso con la musica, nei tour in giro per l’Italia ma soprattutto in quei viaggi creativi che sono il fulcro della vita di uno che ha sempre voluto una cosa nella vita: scrivere canzoni. In diverse forme, così come succede spesso agli artisti di oggi: con una band prima (gli Stag, visti anche a Sanremo giovani nel 2012) e oggi da solista, dopo che Elisa lo ha scoperto e prodotto una canzone (ultimo singolo: Ti vedo attraverso), ma nello stesso tempo per colonne sonore cinematografiche, per spot, per progetti artistici e per le sfilate.
Come ha conosciuto Elisa?
«Una storia incredibile. Io la seguo da sempre: lei rappresenta, tra le altre cose, l’artista italiana credibile anche in inglese, che è ciò a cui aspiro a diventare. Insomma, un giorno apro la posta elettronica e mi trovo questa mail: Ciao Marco, sono Elisa. Ma Elisa chi? Non ho amiche che si chiamano così… Mi riempiva di complimenti e mi chiedeva di aprire un suo concerto a Lucca, era il 2014».
Come l’ha scoperta?
«Su YouTube: aveva visto dei miei video. Poi ci siamo conosciuti, ho duettato con lei in alcuni suoi concerti e a un certo punto si è innamorata di una mia canzone e si è offerta di produrla: Con il senno di poi, il mio debutto solista».
La band, gli Stag, si è sciolta?
«No, ci sono e collaboriamo, ma ora sento di volermi mettere in gioco da solo. La band è anche uno scudo, ti protegge molto, e io finalmente ho fatto pace con la mia faccia».
Che cosa c’è che non va nella sua faccia?
«A Sanremo giovani spingevano per farmela mettere sulla copertina del singolo, ma io avevo litigato ferocemente: ho sempre avuto il timore che legare la musica alla mia immagine, l’immagine di un ragazzo carino, togliesse credibilità al progetto».
Poi ha cambiato idea o si è solo rassegnato?
«Mi sono riconciliato: usato bene, l’aspetto è un’arma importante nel mondo di oggi che è fatto di immagini. Poi, in realtà, per tanti anni ho creduto di essere brutto: troppo alto, magro, in discoteca ero quello che stava sui divanetti».
Ti vedo attraverso parla di uno specchio.
«Mi sono immaginato che, per una volta, è lo specchio che parla a me, e non il contrario. È una canzone che racconta l’inquietudine e lo smarrimento vissuti in quest’anno di pandemia».
Che cosa le dice lo specchio?
«Si lamenta del fatto che non riesco a vedere la bellezza delle cose e mi dice: non hai bisogno del permesso di nessuno per amarti. Racconta della possibilità di amarsi e di accettarsi per quel che si è. Amare se stessi è un percorso lungo e difficile, lo sto imparando grazie all’analisi. Le canzoni le scrivo prima di tutto per me, da sempre».
Racconti.
«La prima l’ho scritta a 13 anni e mi ha permesso di esprimere tutta la sofferenza che stavo vivendo durante la separazione tumultuosa dei miei genitori, si chiama Slay Tilling».
È stato allora che ha deciso di fare il musicista?
«Sì, ho avuto la fortuna di capirlo molto presto. La passione me l’aveva trasmessa mio padre, che suonava in una band ma a cui non fu permesso dalla famiglia di tentare la carriera nella musica. Io invece ho frequentato il conservatorio, che poi ho abbandonato, e il centro sperimentale di Roma, corso di musica per cinema».
Perché ha abbandonato il conservatorio?
«Avevo 15 anni, mi ero iscritto con l’idea di contaminare le mie canzoni pop con la musica classica, ma al Santa Cecilia un insegnante molto conservatore mi osteggiava e mi diceva di lasciar perdere, che non ero portato. Ho mollato tutto, per un anno non ho toccato il pianoforte».
Invece poi la musica è diventata il suo mestiere.
«Sì, ho scoperto che quel professore amava denigrare tutti. Alla fine mi ha dato la carica per affrontare gli ostacoli con maggiore decisione e maggior senso critico. E oggi mi considero molto fortunato perché passo la vita a fare ciò che amo».