Nel suo debutto letterario parla delle comunità di origini asiatiche schiacciate dai pregiudizi
Le comunità di origini asiatiche vivono schiacciate da pregiudizi e aspettative. SANJENA SATHIAN ne parla nel suo folgorante debutto letterario. Mentre l’odio aumenta, e non solo in America
Perpetui stranieri, mai davvero ammessi. Puoi avere soldi, potere e un finto senso di appartenenza. Ma appena qualcosa va storto, torni a essere la minoranza da prendere di mira». Sanjena Sathian è l’autrice di Gold Diggers, romanzo edito da Penguin (in Italia sarà pubblicato da La nave di Teseo) e incensato dalla critica: «Un magico debutto», ha scritto il Guardian. In un immaginario sobborgo di Atlanta, due adolescenti di origine indiana – Neil e Anita – vivono sopraffatti dalle ambizioni familiari, stretti tra le maglie delle aspettative della loro comunità. Proprio ad Atlanta, lo scorso marzo, un giovane di 21 anni comprava un fucile ed entrava in tre centri benessere sparsi per la città uccidendo diverse donne di origine asiatica e segnando la nascita del movimento di protesta Stop Asian Hate. A scavare tra le pagine scritte dalla 29enne americana di origine indiana, si trovano tutte le premesse di un gruppo nato dalle costole di Black Live Matter e fino a pochi mesi fa mai del tutto compreso: che cos’avrà mai da lamentarsi – ci si chiedeva
– la ricca e solida comunità dalle radici orientali? «Una minoranza
privilegiata, istruita, di successo, benestante. Questo, ironicamente, è il “pregiudizio” che pesa su di noi. Al tempo stesso, ci fa credere di vivere al riparo da certi attacchi razzisti, e non è così», racconta Sathian, mentre sceglie con cura le parole e si centra nell’inquadratura dello schermo, mostrando uno scorcio del suo appartamento, tra pile di libri e pareti chiare. «Lo abbiamo visto accadere dopo l’11 settembre e con la guerra in Afghanistan: sono cresciuta in Georgia, e all’epoca l’odio contro arabi e asiatici era molto forte. Più di recente, con la crisi Covid e nel pieno dell’era Trump, il capro espiatorio sono diventati i cinesi».
Dati alla mano, la pandemia ha favorito il diffondersi del virus dell’intolleranza nei confronti di tutte le minoranze asiatiche. Già un anno fa le Nazioni Unite lanciavano l’allarme contro l’aumento di questo tipo di xenofobia: negli Stati Uniti, il gruppo anti-razzista Stop AAPI Hate ha contato oltre 2 mila segnalazioni in un anno, da un capo all’altro del Paese. A New York City si è passati da tre a 28 crimini di odio contro cittadini di origine asiatica tra il 2019 e il 2020; a Sacramento, in California, le denunce sono aumentate di otto volte. Nello stesso periodo, lA’ sian Australian Alliance riceveva quasi 400 segnalazioni di razzismo, insulti e intimidazioni a danno di cittadini orientali. In Italia? Un gruppo di ricercatori della University of Pennsylvania ha analizzato il «Database razzismo» dall’associazione Lunaria, scoprendo che a inizio pandemia gli episodi di discriminazione nei confronti di cittadini asiatici avevano superato quelli nei confronti degli immigrati di origine africana, la minoranza fino a quel momento più colpita, con punte del +1.308% rispetto al periodo pre-Covid nei comuni con maggiore tasso di disoccupazione. Che crisi economica e razzismo vadano a braccetto è cosa nota. Ed ecco il paradosso: nel pieno della crisi, a una generazione giovane e di successo è permesso sentirsi discriminata? Non a caso, il mito della minoranza privilegiata, che anestetizza lo sdegno nei confronti del razzismo anti-asiatico, si lega a quello dello studente perfetto: se ne torna a parlare a dieci anni dalla nascita del termine tiger mom, inno al rigido stile educativo cinese e, più in generale, asiatico: «In molti casi, è il risultato delle difficoltà che i nostri genitori hanno sopportato per emigrare, ottenere un visto, sopravvivere. La risposta è nella tragicità del sistema migratorio: se hai faticato così tanto per arrivare, cos’altro insegnerai a tuo figlio se non a faticare?». Eppure, tra le righe, Gold Diggers è un attacco feroce nei confronti della cultura della «mamma tigre»: «Penso a me. Alla high school, su duecento alunni, eravamo 11 indiani: ragazzi con i quali uscivo, partecipavo alle attività extrascolastiche, studiavo. Sempre insieme, competitivi, ansiosi, intrappolati e interdipendenti». La strada era definita: «Ho fatto quel che andava fatto, ho lavorato sodo, ho preso ottimi voti, sono entrata a Yale. Ma attorno a me ho assistito a crolli emotivi e problemi mentali. Abbiamo a lungo pensato che l’assimilazione consistesse nell’entrare nelle scuole migliori, ottenere un posto di lavoro che pagasse bene, fare dei figli. Quel che mi chiedo, nel mio libro, è se questo sia davvero abbastanza dal punto di vista morale, personale e anche politico. Per fortuna, oggi ci sono donne che possono essere prese a modello di un’ambizione diversa, come Alexandria Ocasio-Cortez». Ogni comunità vive il suo stigma, riflette, come dimostrato dalla sparatoria di Atlanta, che trova radici nell’estrema sessualizzazione con la quale viene caricato l’odio razziale nei confronti delle donne di origini coreane, per esempio: «La tendenza è quella di considerare le donne dell’Est-Asia come geishe. Al contrario io, in quanto indiana e scura, sono stata considerata non attraente. È l’appartenenza al gruppo che ti rende, in quanto asiatica, ipersessualizzata o desessualizzata: nel mezzo, il nulla». La mancanza di consapevolezza della propria storia, unita a una rappresentazione mediatica spesso errata, è stata a lungo un mix pericoloso: «Negli Usa, per esempio, la maggioranza bianca ha in testa un’immagine precisa: gli indiani sono quelli che riordinano gli scaffali del minimarket e le vietnamite ti fanno le unghie nei nail salon. Da ragazzina i bulli mi chiamavano Apu: il personaggio dei Simpson era l’unica rappresentazione di indiano-americano che vedessi in televisione». Sathian sta lavorando all’adattamento per la tv del suo romanzo insieme a Mindy Kaling, l’attrice e sceneggiatrice di origine indiana resa celebre dalla serie The Office: «Il suo personaggio, Kelly, non è una bambola, non è un genio e neppure un’eroina, anzi talvolta usa il suo essere parte di una minoranza come arma manipolatoria». Un po’ come Devi, la giovane protagonista della serie Non ho maiÉ, piccolo fenomeno di culto tra i giovanissimi la cui seconda stagione è appena tornata su Netflix: «Adoro Devi. È maleducata, egocentrica, non va bene a scuola, non segue le regole. Avrei tanto voluto vedere in tv anche personaggi come lei, da ragazza».
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«A SCUOLA ERAVAMO UNDICI INDIANI SU DUECENTO: SEMPRE INSIEME, COMPETITIVI, ANSIOSI, INTRAPPOLATI E INTERDIPENDENTI»