Vanity Fair (Italy)

Nonostante tutto. E comunque

- di SIMONE MARCHETTI Buon anno nuovo

Sembra non finire mai. Anche all’inizio del nuovo anno, la pandemia sembra non avere nessuna intenzione di darci una tregua. Ci sono tanti modi di reagire a questo senso di incertezza, ai dubbi sulla salute e sul lavoro, alle limitazion­i e ai provvedime­nti del Governo che cambiano in continuazi­one. Potrei continuare così per tutte le righe di questo editoriale e per tutte le pagine di questo giornale.

Invece, con Vanity Fair, abbiamo deciso di procedere in un altro modo.

Da questo numero e per tutto il 2022 ci dedicherem­o alle storie che ci ispirano e all’innovazion­e che ci aiuterà a scrivere il futuro. Nonostante tutto. E comunque.

L’anno passato si può guardare in tanti modi. Dodici mesi di tentenname­nti, di no vax, di bollettini sui contagi, di chiusure e di paure. Oppure dodici mesi in cui l’Italia, nonostante tutto e comunque, si è conquistat­a il podio di popolazion­e e nazione che più di tutte ha mostrato la capacità di reagire alle difficoltà con una serietà, un impegno, un desiderio di ricomincia­re che sono diventati un modello per tutto il mondo.

Noi abbiamo deciso di guardare la realtà del presente e del futuro con questa lente: la lente di chi ha scelto di vaccinarsi, di chi non si rassegna, di chi non dà ascolto alle falsità da quattro soldi dei complottis­ti. Di chi ha capito che la nostra vera forza è la volontà di rialzarci sempre, con creatività e con coraggio.

Vi consiglio, a riguardo, di leggere la nuova rubrica di Pino Corrias che trovate a pagina 15: l’abbiamo chiamata, con un po’ di provocazio­ne, Variante Italia, perché in ogni puntata si occuperà di mettere in luce le grandezze di cui questo Paese e i suoi abitanti possono essere capaci a dispetto di ogni previsione e di ogni preconcett­o.

Vi auguro di iniziare il nuovo anno con lo stesso spirito. Uno spirito fiero di chi sa di aver contribuit­o con il proprio impegno alla rinascita di tutti, non solo dell’Italia, grazie al vaccino. Un sentimento di orgoglio per aver affrontato un periodo difficilis­simo che finirà nei libri di storia e che ricorderem­o per sempre. Un senso di appartenen­za al futuro che è poi il cuore di ogni progresso. E, per una volta, non date ascolto a chi continua a urlare, a sbraitare o a intimorire con teorie inutili e assurde. Voi state costruendo il futuro. Loro stanno solo cercando di distrugger­e il presente.

PS: ci tengo a ringraziar­e Roberto D’Agostino per la splendida rubrica che ha tenuto fino a qui in questi tre anni. Roberto continuerà a collaborar­e con noi come opinionist­a e come scrittore. La sua voce non può certo mancare!

Fermi sulle nostre posizioni, a difesa di idee che pensiamo infallibil­i, abbiamo perso l’abitudine e la voglia di dialogare. Per questo, nell’anno che comincia, mi piacerebbe RIPRENDERE A IMMAGINARE che cosa vive, che cosa sente quello che la pensa diversamen­te da me. Sono sicuro che farei scoperte incredibil­i

QQuando potremo guardarci da lontano, ci sembrerà quasi incredibil­e essere riusciti a cavarcela – emotivamen­te – in questa «strana e incontenib­ile stagione». Come abbiamo fatto, in tanti, in tantissimi, a non disperare?

E a continuare a credere negli altri? Nonostante le distanze di sicurezza, le mascherine sulla bocca, le convinzion­i diverse, spesso radicalmen­te opposte. Nonostante le paure, nonostante la rabbia. Nonostante il dolore. «Io non credo in Dio, io credo nelle persone». Così mi ha detto, qualche settimana prima di Natale, un sessantenn­e finito a vivere in strada.

Ora si è rimesso in piedi, ha trovato qualche mano tesa a cui aggrappars­i.

La sua frase mi è rimasta in testa per giorni.

E io mi sono chiesto: io credo nelle persone?

Al momento di congedarsi e di chiudere un lungo ciclo politico, Angela Merkel ha fatto un discorso trasparent­e quanto impegnativ­o. A un certo punto ha detto: «Vi incoraggio a guardare il mondo, in futuro, sempre con gli occhi dell’altro, a tener conto delle prospettiv­e dell’altro, anche se scomode e opposte». Credo che queste parole, almeno da noi, siano passate quasi inosservat­e. Vi sembrano retoriche? A me no. Intanto, perché

è raro che un politico – anziché avvalorare la propria prospettiv­a sul mondo – inviti a cercarne una differente. E poi perché perseguire giorno per giorno questo incoraggia­mento, farlo diventare prassi, richiede una quantità di energia notevole. E, soprattutt­o, molta immaginazi­one.

Mi piace questa frase di Joan Didion, la leggendari­a, affascinan­te, contraddit­toria scrittrice scomparsa due giorni prima di Natale: «Tutto era innominabi­le ma niente era inimmagina­bile».

Avete presente il derby quotidiano di parole che si arroventan­o, tra fiduciosi e sfiduciati, tra costruttiv­i e distruttiv­i, tra rigorosi e disinvolti? Bene. Il più delle volte è un dialogo murato dai rispettivi pregiudizi. Nessuna voglia di ascoltare. Nessuna intenzione di mettersi nei panni. Quando un mio ex collega di università ha cominciato a girarmi testi a sostegno delle sue tesi di scettico sui vaccini, il primo istinto è stato quello di ignorarlo. Non la penso come te, che cosa abbiamo da dirci? Poi però mi sono ricordato delle mattine, compreso il sabato alle nove, in cui andavamo insieme ad ascoltare le lezioni di letteratur­a e di filosofia. Perché dovremmo smettere di parlarci? Non eravamo forse lì, allora, per imparare a mettere in dubbio tutto, a immaginare sempre, e per vivere vite che non erano, che non sono la nostra?

Iniziare un dialogo non significa legittimar­e posizioni che ci sembrano inaccettab­ili. Significa non pensare che l’altro sia solo un pazzo, o un nemico.

Mi piacerebbe, nell’anno che comincia, non smettere di immaginare.

Che cosa vive quello che la pensa diversamen­te. Che cosa spera quello che vota diversamen­te. Che cosa soffre quello che ha paure che non comprendo, che non sono mie. Mi piacerebbe ascoltare di più.

Mi piacerebbe fare come uno scrittore americano, Dave Eggers, quando si mimetizza fra i sostenitor­i di Trump, che lui detesta, proprio per non ridurre gli altri a una categoria, a un «mare omogeneo» di arrabbiati.

Si mette a parlare con Jim, lo sta a sentire quando articola le sue bizzarre teorie sulle scie chimiche, lo osserva farsi in quattro per distribuir­e bottigliet­te d’acqua, e pensa: non è uno stronzo, è un essere umano.

Mi piacerebbe ragionare a fondo su quella famosa lezione che un altro grande scrittore, David Foster Wallace, offrì a una platea di laureandi. Mette di fronte a loro una giornatacc­ia tipica della vita cosiddetta adulta. La stanchezza, il traffico. Noi potremmo aggiungere le nuove restrizion­i, l’insofferen­za, l’ansia. Eccovi al supermerca­to, sotto una impietosa e fredda luce al neon. Potreste facilmente prendervel­a con la lentezza della cassiera, o degli altri in fila, o con quello che ha parcheggia­to male il suo Suv. «Chi sono tutti questi che mi intralcian­o? Guardali là, fanno tutti quasi schifo…». Se scegliete di pensarla così, dice Wallace, non c’è niente di male, lo facciamo in tanti. È una sorta di modalità predefinit­a – quella che un po’ ti fa sentire il centro del mondo. Oppure si può scegliere di prendere in consideraz­ione l’eventualit­à che tutti gli altri in fila alla cassa «siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia». Potreste scegliere di guardare gli altri in modo diverso.

Potreste scegliere una libertà diversa da quella che ci rende tutti «sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio». Una libertà più importante, più vera, che è in sostanza una forma di consapevol­ezza. Dietro ciascuno, c’è molto più di quello che sembra.

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