Sempre meno diritti e nessun MeToo LA CINA NON È UN PAESE PER DONNE
Che fine ha fatto Zhou, l’impiegata di Alibaba che ha denunciato il suo capo per aver abusato sessualmente di lei in viaggio d’affari? Licenziata. E Xianzi, la stagista che ha denunciato per stupro Zhu Jun, l’acclamato presentatore della televisione di Stato? Denunciata a sua volta per diffamazione. E ancora Peng Shuai, la tennista che ha accusato pubblicamente l’ex vicepremier di averla prima costretta a rapporti sessuali e poi di averla manipolata psicologicamente all’interno di una relazione malata? Costretta a smentire le sue parole ai microfoni dei media di Stato e, forse, in una sorta di detenzione extragiudiziaria. Il movimento MeToo, esploso in Cina con l’hashtag #WoYeShi, viene stroncato con gli strumenti di sempre. «Colpirne uno per educarne cento», tanto per citare il fondatore della patria Mao Zedong. Eppure. All’inizio del Novecento, quando la Cina era ancora un impero, molti intellettuali erano convinti che la questione dei diritti delle donne fosse centrale per trasformare la Cina in una nazione moderna. Anche ai tempi di
Mao, l’uguaglianza di genere era considerata fondamentale per il Paese e un vanto dei sistemi socialisti. La propaganda educava le masse a donne muscolose che avevano gli stessi diritti e doveri degli uomini. Ma poi le cinesi hanno perso il terreno già conquistato. E sì che trent’anni fa, quando è iniziata l’epoca delle riforme e la Cina ha cominciato ad aprirsi al mercato, lavoravano tre donne su quattro e il loro stipendio era l’80 per cento di quello dei colleghi. Ma alla fine degli anni Ottanta sono state le prime a pagare il prezzo delle dismissioni di