THE ISOLATIONIST
Per The Isolationist l’anonimato non è una strategia per nascondersi. È un credo assoluto. Una volontà di ferro battuto. L’unica chance per essere conosciuti al di là delle origini, dell’orientamento, dell’età. L’artista non c’è nemmeno su Instagram, al massimo su Twitter (@IsolationistThe), dove la community di crypto arte è pur sempre più attiva. A ulteriore testimonianza dell’importanza di celare l’identità, la serie di ritratti deturpati e senza volto, con cui esplora il tema. Il racconto di sé a Vanity Fair va comunque in profondità. «A cinque anni, con la morte della nonna, ho imparato a convivere con la malinconia», una compagna così importante da essere documentata nel lavoro Melancholia; a sette ha assaporato la delusione: a un concorso la sua «prima opera» – una fila di edifici – è stata definita troppo astratta. Doveva accadere. Così come il percorso inverso rispetto a molti colleghi: «Sento spesso storie di artisti che lasciano il lavoro dopo aver guadagnato terreno nel mondo crypto. Io l’ho abbandonato prima di iniziare questo viaggio: è un grosso rischio, perché ho pochi risparmi e bocche da sfamare. Ma credo in ciò che faccio». Per non perdere la rotta, il conforto di un gesto ordinario: «La preghiera contemplativa. Riempie la maggior parte degli spazi della mia vita», e una decina di maestri, «però i più ovvi sono Francis Bacon e Cy Twombly», irlandese e famoso per le immagini crude e inquietanti il primo, americano e noto per la tecnica a metà tra la pittura e l’incisione il secondo. Alla domanda: come mai gli artisti più tradizionali snobbano i crypto, la risposta di The Isolationist è: «Principalmente sfiducia o incapacità di comprendere la blockchain».