Vanity Fair (Italy)

MATTEO INGRAO

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Matteo Ingrao pensa con le mani. Sarà che nasce scultore, sarà che la fisicità è centrale nella sua arte fin dagli esordi. «Tutto comincia con un piccolo busto di un uomo realizzato con argilla cotta al forno», ricorda. «Era molto grezzo e per niente dettagliat­o, immagino fossi troppo impaziente di vederlo finito. Che poi non era tanto distante dai ritratti digitali che realizzo oggi. L’ho conservato in una scatola da qualche parte». Belga, poco più che trentenne, in tasca una laurea in Traduzioni e un master in Comunicazi­one multilingu­e, si definisce «autodidatt­a». La sua specialità: la pelle umana, con particolar­e interesse per alterazion­i e irregolari­tà, pieghe e grinze e rughe. Per farvi un’idea più precisa, cercatelo su Instagram: @matteoingr­ao. E non stupitevi se le sue opere, sia fisiche sia digitali, provocano sentimenti contraddit­tori: il desiderio di toccarle e il senso di disgusto. A ispirare l’artista di Bruxelles sono le origini selvagge e primitive dell’uomo, il modo in cui l’isolamento influenza la forma (attualissi­mo!), l’evoluzione e le deformazio­ni umane alternativ­e (quali la sindrome dell’ipertricos­i, un aumento localizzat­o o generalizz­ato dei peli, ndr). «In più, tutti i grandi del Rinascimen­to e le persone comuni che incontro per strada: mi piace camminare o pattinare e guardarmi intorno, scattare fotografie a caso di chi incrocio». L’argilla crea dipendenza? «Amo maneggiarl­a mentre lavoro e non avrei mai pensato di passare al digitale, che adesso desidero coniugare con la scultura tradiziona­le in silicone. Ma la vita, un anno fa, ha preso una piega diversa. Ci saranno sempre i detrattori dei nuovi mezzi di espression­e: peggio per loro».

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