Vanity Fair (Italy)

Il mio pianoforte è un’astronave

- chiara oltolini

Se da bambino il pianoforte, con cui sei una cosa sola, è per te un’astronave verso il futuro, da grande non puoi non diventare il Capitano Kirk della navicella musicale che scopre galassie sonore avanti anni luce. Dall’altra parte dello schermo, coerenteme­nte al momento in questione, Dario Faini, in arte Dardust – in omaggio a Ziggy Stardust di David Bowie e ai fratelli Dust alias The Chemical Brothers –, fa quello che gli riesce meglio. Guarda oltre. Che è poi la qualità, insieme all’intelligen­za fiammeggia­nte e al primato dell’umiltà, che l’ha reso autore e produttore tra i più importanti del panorama italiano: sono suoi i successi pop Nuova era di Jovanotti, Andromeda di Elodie, Soldi di Mahmood, Voce di Madame… giusto per citarne un’esigua rappresent­anza, ma si sappia che in bacheca conserva una sessantina di dischi di platino. I suoi lavori da solista, poi, sono meritevoli di un angolo di eternità internazio­nale: progetti strumental­i allo zenit della sperimenta­zione, che prendono spesso una direzione ostinata e contraria al passato. Sarà anche protagonis­ta di grandi eventi che romperanno le regole, ancora una volta, a partire dalla Notte della Taranta di cui sarà maestro concertato­re.

Che suono ha il futuro?

«Fluido, coraggioso, che non vuole appartener­e a generi o categorie: oggi, invece, le cose funzionano se sono facili da etichettar­e».

Le sue non lo sono.

«Convivo da sempre con una doppia anima: il minimalism­o del pianoforte e l’elettronic­a stracolma di contaminaz­ioni. Mi dico: “Perché ancorare la creatività a degli schemi? Voglio essere libero!”. Così sono nati anche i miei due nuovi singoli per A1/Sony Masterwork­s: Parellel 43, ovvero il parallelo di Ascoli Piceno, la mia città natale tra restrizion­i e barriere da infrangere, per ripartire da dove sono arrivato, e Dono per un addio, dedicato a mio padre, che è scomparso un anno fa. Mi sono messo al lavoro sul disco subito dopo la sua morte. Uscirà in autunno, preceduto da coppie di singoli».

Gli album antecedent­i, ovvero la trilogia composta da Birth,

7 e S.A.D. Storm and Drugs, erano un tributo rispettiva­mente a Berlino, Reykjavík ed Edimburgo, le scene musicali che l’hanno formata. Il prossimo quale altra città europea celebra?

«Si spinge oltre, fino al Giappone. Sarebbe stato un disco da scrivere lì, ma non è stato possibile. Allora ho studiato il pensiero nipponico e ho scoperto due concetti che mi hanno aiutato moltissimo.

Il primo, kintsugi, è l’arte di esaltare le ferite: all’origine c’è l’usanza di riempire con dell’oro le crepe delle porcellane, che vengono così saldate, creando nuova bellezza. È ciò che ho fatto io: invece di nascondere le mie cicatrici, le ho riempite con l’oro della musica. Il secondo concetto si chiama nintai: andare avanti, perseverar­e con pazienza nonostante una spada conficcata nel cuore; mi piace parecchio, perché dopo tanti traguardi raggiunti come produttore, attendo i frutti di un progetto mio, coraggioso e complesso».

In un periodo di contagi ancora elevati che pensieri ha sui live?

«Confido che l’emergenza sanitaria rientri. I concerti virtuali

non saranno mai un’alternativ­a a quelli in presenza. Nemmeno fossero in 3D o multidimen­sionali. Sono laureato in Psicologia e credo nella Gestalt secondo la quale il tutto è più della somma delle parti: solo dal vivo si amplifican­o i suoni, l’energia del pubblico e del performer, la magia».

Magari assisterem­o alla sua prima esibizione sul palco del metaverso, il nuovo mondo digitale?

«Potrebbe diventare un mezzo a nostra disposizio­ne per entrare

ancora di più in contatto con chi ci segue. Anche se io appartengo a una generazion­e per cui l’artista della porta accanto che posta sui social cosa mangia a colazione e a pranzo non è contemplat­o: l’artista deve alimentare un’aura di mistero, risultare quasi irraggiung­ibile. È pur vero che vince chi si adatta; quindi, se è questo ciò che vogliono, bisogna sovente cambiare».

Torniamo al presente. Come sta la musica?

«Da un certo punto di vista gode di ottima forma. Lo streaming e l’accesso agli strumenti per scrivere e produrre hanno portato a una democratiz­zazione del talento: chiunque riesce a emergere senza seguire per forza il solito percorso talent scout casa discografi­ca distribuzi­one promozione; hanno poi permesso di abbattere le frontiere e infatti nel 2021 l’Italia ha brillato all’estero. In più oggi c’è un bel margine di imprevedib­ilità: qualsiasi personaggi­o, sconosciut­o, addirittur­a nascosto, del quale non è possibile immaginare il valore, può sbocciare da un momento all’altro».

Giudizio tecnico: chi sta realmente spariglian­do le carte del panorama europeo?

«Potrei dire un po’ di nomi, ma vorrei soffermarm­i su Stromae: dopo un periodo d’oro, è “caduto”, ha avuto problemi di salute ed è sparito per cinque anni da un contesto in cui bastano sei mesi di silenzio per eclissarsi; adesso sta ritornando con un approccio originale e potente, con una forza creativa notevole. È un bellissimo messaggio per tutti. E lo porta uno come lui, giovane (classe 1985, ndr), che è stato tra i primi a essere simbolo di integrazio­ne e di non appartenen­za ai generi».

Sanremo è alle porte. Nella scorsa edizione lei ha firmato cinque brani in gara, oltre ad aver prodotto il medley di Elodie, coconduttr­ice per una sera; il che le è valso il titolo di «eminenza grigia del Festival 2021». Quest’anno?

«La verità: mi ero ripromesso di starmene in disparte, di non esserci come produttore».

Perché?

«Ho dato tanto in passato e adesso desidero concentram­i sul mio progetto».

Però c’è un però, giusto?

«Alla fine sono rimasto incastrato, anche se in modo diverso: sono – senza clamore – coautore di tre canzoni: Ogni volta è così di Emma, Virale di Matteo Romano e Ti amo non lo so dire di Noemi. Li stimo davvero, valeva la pena lavorare con loro».

Nella sua vita ha tenuto nel cassetto parecchi pezzi, pronti al bisogno?

«Non tantissimi. Uno, per esempio, che ho conservato per una dozzina d’anni, finalmente troverà spazio nel nuovo disco. In genere, tuttavia, i miei brani stanno nel limbo per molto meno tempo: un paio di anni, poi trovano sempre una via per uscire».

Invecchian­o rapidament­e?

«Invecchia l’involucro, l’apparato tecnico: se il tema è emozione pura, basta cambiargli il vestito».

Proprio per l’assenza di parole i suoi pezzi vivono di visioni, il che li rende perfetti per il cinema. A quando la sua prima colonna sonora?

«Mi sono già arrivate delle proposte, ma non mi sembravano adatte per un battesimo. Ecco, mi piacerebbe un emergente alla sua opera prima, con il quale iniziare insieme. Oppure, una chiamata dai registi che amo: Luca Guadagnino, Matteo Garrone, Paolo Sorrentino».

Ha un luogo d’elezione per comporre?

«Uno su tutti: l’Islanda. La mia musica è preromanti­ca per il senso del sublime tanto caro allo Sturm und Drang. Che cos’è il sublime? Paura ed estasi, ciò che si prova di fronte a quegli scenari gigantesch­i, quasi divini, solitari, che costringon­o a riconsider­are i propri limiti».

Il pianoforte continua a essere per lei un’astronave verso il futuro?

«Sì, dove non temo di essere un bambino».

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Kimono custom by Tiny Idols. Earcuff, Angostura. Orecchini, Ugo Cacciatori.

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