La direzione giusta
Il rally non è uno sport ma una direzione. «Quando sali in macchina e metti il casco, le cose non importanti volano fuori dal finestrino. Resti solo tu, l’adrenalina e la direzione giusta». A spiegarlo è Lorenzo Bertelli, 33 anni, ex pilota di rally con laurea in Filosofia, oggi membro del Cda del Gruppo Prada dove ricopre il ruolo di Direttore Marketing e di Head of Corporate Social Responsibility. Figlio primogenito di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, è stato più volte indicato come il futuro condottiero della maison. I suoi lineamenti possiedono tutte le curve, le asprezze e gli sprazzi di luce di mamma e papà: a ben guardarlo, il suo volto è la sintesi perfetta dei due.
Iniziamo dai suoi genitori. Che cosa ha imparato da loro?
«Da mio padre la determinazione, l’integrità ai principi. E in fatto di qualità, da mia madre l’ossessione a non accontentarmi mai».
Come si cresce in una famiglia così importante?
«Quando cresci in una famiglia ricca ti fai gli anticorpi. E ti abitui a capire chi ti circonda, che interessi ha, quali sono i suoi veri scopi. Ho imparato così a comprendere le persone di cui mi potevo fidare. È una sensibilità fondamentale che mi è servita tantissimo nel mondo del lavoro».
Un mondo caotico, disordinato, molto cambiato rispetto al passato.
«Non mi piace usare termini come caos o disordine. Io preferisco parlare di complessità. Fino a 50, forse fino a 20 anni fa potevi sapere molte cose, forse quasi tutto del tuo business. Oggi è impossibile, perché il livello di complessità è aumentato esponenzialmente. Devi quindi imparare a fidarti delle persone e devi saper scegliere chi ti circonda. E quando scelgo le persone, col tempo ho imparato a unire fatti e sensazioni. Sono milanista e seguo il calcio. Dico sempre: nessuno vorrebbe giocatori di serie B in serie A o allenatori che non hanno mai allenato. Eppure nelle aziende si accettano spesso figure così».
Quindi solo dirigenti con esperienza e niente giovani?
«Il giusto mix di giovani e di esperienza è la chiave del successo nello sport e nel business. Diciamo che do le competenze per scontate, ma quello che mi interessa è altro».
Che cosa?
«Essere curiosi. Avere fame. Amare le sfide. E aver voglia di lottare per raggiungere gli obiettivi».
Che cos’è per lei la moda?
«Per molti anni, la moda è stata valutata con troppa superficialità, mentre in realtà ha un compito principale: far sentire gli individui a proprio agio all’interno di una società».
Prada però è diventato un marchio famoso proprio per essere riuscito a portare disagio, scomodità, qualcuno direbbe bruttezza nella moda…
«La moda ha un compito principale: far sentire gli INDIVIDUI A PROPRIO AGIO all’interno di una società»
«Sì, è vero, in molti l’hanno chiamato Ugly Chic.
La perfezione e la bellezza, per me, hanno bisogno di difetti e di contrasti. Solo così possono suscitare emozioni. Solo così fanno riflettere. Quello che ha fatto mia madre con Prada è stato far sentire a proprio agio le persone lasciandole sempre con una domanda, con un senso di incertezza».
Uno dei suoi grandi impegni è stato fare rete anche con le aziende e i gruppi concorrenti. Quanto al desiderio di fare sistema, pensa che la sua generazione sia migliore di quella passata?
«Non amo pensare a generazioni migliori o peggiori. Per fare un’analisi chiara, bisogna guardare le cose astraendosi dal fattore temporale. Io penso che storicamente l’Occidente abbia compreso con un po’ di ritardo l’era, i decenni, i ventenni di cambiamento. E sono convinto che solo ora, per esempio, iniziamo a capire la crepa storica che internet e i social media hanno lasciato nella nostra vita.
Non si tratta solo di business, ma di ogni sfera sociale e politica. La sfida di Prada è sempre stata quella di far capire che la cultura è cool, di farla arrivare alle masse. Le faccio un esempio banale che ho condiviso anche con i miei genitori: l’estate scorsa due ragazzi sono entrati alla Fondazione Prada di Milano e mi hanno chiesto dove fossero i funghi allucinogeni. In pochi secondi ho capito che si riferivano all’installazione permanente di Carsten Holler. Bene, i due non avevano nessuna cognizione dell’artista o dell’opera
ma il senso gli era arrivato. Ed erano arrivati fin qui, in uno spazio museale che dava loro un riferimento nuovo su cosa è bello. Le persone hanno bisogno di nuovi riferimenti. Il compito della cultura è questo: fornire nuovi riferimenti».
Lei dice di essere ottimista, di approcciare il suo lavoro con grande speranza.
«Se non fossi ottimista, se non avessi speranza chiuderei l’azienda domani. È come quando inizi a cucinare un piatto: lo fai sperando che sia buono. Altrimenti non vai nemmeno avanti».
La moda può essere ottimista sul suo futuro? La svolta della sostenibilità sembra chiederle di fare un passo indietro...
«Io penso che i veri cambiamenti si possano fare solo all’interno di un sistema, in questo caso quello capitalistico. Il capitalismo è neutro, non ha morale, ma insegue le dinamiche del marketing, della finanza e dei consumatori che oggi chiedono un cambiamento nella direzione della sostenibilità. Credo che al momento la moda debba continuare a creare più valore possibile col meno possibile. Non si può improvvisamente smettere di produrre ma occorre trovare un nuovo equilibrio. Vede, alla fine si torna sempre lì: se riusciamo a far tornare desiderabile la cultura, il capitalismo seguirà. E lo stesso può avvenire con la politica: noi dobbiamo vendere abiti e borse, i politici devono convincere a mettere un voto su una scheda. Il loro compito è molto più complesso ma per certi versi esprimere una preferenza in questo caso rischia di essere anche più facile».
Resta quindi positivo sul futuro dell’Europa?
«Non so se vivrò abbastanza per vedere i frutti di quello che sto facendo. Ma questo non è importante. L’importante è cercare di dare la direzione giusta».