Vanity Fair (Italy)

SEI UNA FORZA DELLA NATURA

«Ho paura della guerra, non per me, ma per questo figlio piccolo e inerme: Carlo mi ha legato al mondo»

- foto JOSEPH CARDO di SILVIA NUCINI servizio SIMONE GUIDARELLI

Biagio Antonacci, 58 anni. A dicembre è diventato papà di Carlo, avuto con la compagna Paola Cardinale. Dal 5 novembre sarà in tour con otto date da Jesolo ad Assago.

Blusa in seta, Emporio Armani. Pantaloni di lino, Giorgio Armani. Scarpe da barca, Sebago.

Un figlio arrivato sfidando l’impossibil­e. Il coraggio di vivere un ruolo come un’opportunit­à, perché «essere padri vuol dire andare avanti per gli altri». BIAGIO ANTONACCI parla di nascita, di sfide, e di amore per la vita. Che va protetta come un piccolo ulivo vittorioso sul gelo

Mio desiderato amore, è inverno e questa sembra una notte qualunque, poca luna, stelle a ciuffi, alberi ancora nudi. Invece è una notte di guerra.

In questo tempo ferito, pieno di graffi e spigoli che non siamo riusciti a curare, pensare al tuo futuro sembra quasi impossibil­e, ma non posso fare altro perché il futuro sei tu. Oggi per la prima volta mi hai sorriso, un sorriso vero, con cui hai fatto sembrare questa Terra una volta ancora pura, un luogo di possibilit­à.

Quando sei venuto al mondo, sei apparso come una divinità antica – faccia bianca, occhi aperti – rendendo sacra tua madre e me nuovamente padre.

Sei all’inizio… fragile come una bolla di sapone nel vento. Ma crescerai, fin troppo in fretta – la stessa con cui io, stanotte, guardo avanti e sogno per te.

Sogno che, da grande, imparerai a prenderti cura di te, delle persone che amerai, dei figli che vorrai avere.

Che potrai lavorare senza guardare mai l’orologio… E non preoccupar­ti mai del tempo. L’importante è non perderlo, questo cazzo di tempo: sfruttalo, usalo, mangialo, non illuderti mai che sia infinito. Non lo è. Regalati senza riserve: ogni oggi è vita.

Scrivi, e porta brividi a chi non ne ha…

Cuci le ferite di chi ti chiede ago e filo…

Provoca tentazioni, desidera e, se puoi, ama… senza limiti. Abbandona l’ordine malato del senso di colpa – che sia maledetto, lui sa di cosa parlo.

E se vieni tradito impara il perdono, ma poi dimentica, lascia andare, che di pesi ne porterai già abbastanza.

Non aspettarti nulla dagli altri. Vivili, sogna con loro.

E ridi, amore, ridi, che ridere è permesso. Ridi e ti alzerai in cielo, diventerai falco, e non sarai mai prigionier­o di nessuno.

Quando sarai nel buio, ricorda che l’unica luce possibile è in te. Non mendicarla mai, la luce: tienila accesa tu. E smaltisci la paura: falla correre, sfiniscila… se la stanchi la paura smette di insistere, perde potere.

Permettiti la verità, sempre… e un giorno arriverà la libertà. Spacca la croce, tieniti il legno e accendi un fuoco: ti farà caldo nei giorni di freddo.

Ogni volta che qualcosa ti sembrerà impossibil­e allunga la mano: sarò al tuo fianco, ti darò coraggio, ti ricorderò chi sei.

Il giorno in cui non ci sarò, non sentirti abbandonat­o. Cercami. Non nel gelo immobile dei cimiteri, nelle cappelle chiuse a chiave. Sarò nello sguardo dei tuoi fratelli, nella dolcezza di tua sorella. Sarò nella terra viva, nell’erba e nei campi, dove ho cantato e ballato a piedi nudi con la mamma. Dove ci siamo amati.

Vai a prenderti la vita, dalle la forma che vuoi, segui l’istinto e diventa te stesso: nient’altro che questo ti auguro, amore mio.

GGli ulivi si piantano a marzo, dopo aver smosso il terreno. Temono il gelo e per crescere hanno bisogno di una promessa di sole, qualcosa di mite nell’aria. Le regole della terra non ammettono deroghe, ma forse la natura guarderà con occhio benevolo i cinque piccoli ulivi che hanno sfidato il freddo, piantati in mezzo all’inverno da un uomo che voleva celebrare così il regalo inatteso di diventare di nuovo padre. Il 20 dicembre 2021 è nato Carlo Antonacci e suo papà Biagio ha preso la vanga e ha ringraziat­o la natura che negli ultimi anni è diventata la divinità che regola la sua vita, «la maestra che mi sta insegnando tutto, anche che i figli arrivano sfidando l’impossibil­e».

Che sfida ha vinto Carlo?

«Io ho 58 anni, Paola, sua madre, ne ha 44. Lo desiderava­mo ma ci eravamo anche detti: se non arriva, va bene così. Poi durante il secondo lockdown, una mattina alle sette, Paola mi sveglia e dice: è positivo. Io penso subito al test del Covid e le rispondo: ma no! L’avevamo scampato fino ad adesso! Lei ride e dice: sono incinta. La mia testa mi consiglia di non illudermi, ma il mio cuore sente subito che quel bambino nascerà perché ha avuto la forza di arrivare durante la pandemia ed è stato concepito vivendo nella natura, circondati dagli animali che accudiamo e ci accudiscon­o, come fa Nino, il nostro cane».

Al terzo figlio che cosa si impara?

«Questa volta non mi sono chiesto: sarò capace? Una domanda che, invece, quando ero diventato padre di Paolo, che ora ha 26 anni, e di Giovanni, che ne ha 20, continuavo a farmi. E ho avuto la fortuna di crescere Benedetta, la figlia di Paola, che è diventata figlia mia. Con Carlo non ho avuto paura, ma ho avuto coraggio, perché ho ricevuto un ruolo. Durante il lockdown ho pensato a tante cose e ho capito che i ruoli servono agli esseri umani, perché sono cammini, doveri. Io un tempo ho avuto il ruolo dell’uomo che sogna di vivere di musica: facevo il geometra, volevo fare il cantautore. Poi è successo. Adesso ho il ruolo di padre; essere padri vuol dire andare avanti per gli altri, vuol dire guardare il futuro. Ogni ruolo, se vissuto con coraggio, è un’opportunit­à».

Il coraggio di occupare tutto lo spazio che essere padri richiede?

«Oggi so che si può essere padri anche in serenità: mi alzo di notte a dare il biberon a mio figlio e se la mattina ho sonno mi permetto di dormire un po’ di più. Davo il biberon anche agli altri miei figli, ma ero sempre troppo impegnato con il lavoro, molto distratto, poco lucido».

Questa differenza la fa sentire in colpa verso di loro?

«Io soffro di senso di colpa cronico, ma in questo caso non ne ho nessuno, perché so che con loro ho fatto tutto quello che potevo fare e anche di più. Ero perennemen­te in affanno e quando sei in affanno di solito esageri. Loro hanno accolto questo fratellino con amore e meraviglia. Paolo mi ha detto: papà, se a 58 anni hai avuto le palle di fare un figlio, allora vuol dire che la mia vita è lunghissim­a, e non è mai troppo tardi per niente».

Come stanno i cinque ulivi?

«Bene, ma l’ulivo da giovane è come un bambino: nei primi due anni devi averne cura, devi dargli l’acqua se non piove. Poi diventerà qualcosa di magico e indipenden­te, un cavaliere imbattibil­e. Un albero adulto può anche essere tradito, ma resiste: se ne bruci metà, l’altra metà sopravvive. Queste cose le ho imparate studiando i miei, di ulivi. Mi sono messo non davanti ad ammirarli, ma dietro, nascosto dai loro tronchi, per capire. Ne ho molti nella mia azienda agricola a Bertinoro, in provincia di Forlì-Cesena. È una casa su un colle, baciato dal sole. Ci sono arrivato per caso nel 2007 e ho sentito attrazione per quella terra con cui non avevo nessun legame, in cui non avevo radici».

Che rapporto ha con la terra uno che è nato a Rozzano?

«Paolo, che ha 26 anni, mi ha detto: “Papà, se a 58 anni hai avuto le palle di fare un figlio, allora vuol dire che la mia vita è lunghissim­a, e non è mai troppo tardi per niente”»

«Nessuno. Rozzano è una cattedrale di cemento, io sono anche cresciuto all’ottavo piano, coi piedi lontanissi­mi dalla terra. E quando ce li mettevo sopra, era tutto solo asfalto. Avevo bisogno di natura, di sentire che cosa sono le stagioni: l’esplosione della primavera, l’inverno quando si spegne tutto. Ho capito che la natura se ne frega di noi, va avanti, ci provoca, si ribella. Io sono convinto che il Covid sia stata l’arma che la natura ha usato per dire all’uomo: non ti illudere, sei come una pianta, un fiore. Stando in campagna ho sviluppato una mia teologia: la natura nasce prima di Dio. Dio si innamora di lei e la fa dea, Dio al femminile. Dal loro incontro e abbraccio nasce l’uomo».

La natura l’ha resa umile?

«Qualche volta, quando qualcuno vuole farmi un compliment­o, mi dice che sono umile. Ma per me l’umiltà è un dato assodato, come saper parlare. Umiltà è essere sé stessi e saper rispettare ciò che ci circonda. Il rispetto è la lezione più grande che la natura mi ha dato. E l’idea che c’è un tempo per ogni cosa».

Anche per il successo?

«Io sono sempre stato prima Biagio Antonacci geometra, e poi Biagio Antonacci cantautore. Voglio dire che prima è venuta la mia vita e poi il successo. Per me il successo è stato un optional meraviglio­so. Che ho anche pagato tantissimo».

In che modo l’ha pagato?

«Con i sacrifici. Io allora non me ne accorgevo, non sentivo la stanchezza di insistere, mi è arrivata addosso tutta dopo. E poi c’è stato il mio errore col tempo».

L’ha usato male?

«Ho avuto tanto tempo libero e l’ho sprecato. Lavoravo sei mesi e gli altri sei stavo fermo senza sapere che cosa fare. Ero galvanizza­to dal pieno, e annichilit­o dal vuoto. Sono un pigro, e i pigri pagano il tempo buttato. Avrei potuto imparare una lingua, scrivere dei libri, fare dei film».

Invece che cosa ha fatto?

«Mi sono molto annoiato. Quel tempo era un regalo che non ho rispettato. Ho imparato ad annoiarmi in maniera costruttiv­a soltanto nel primo lockdown, che io chiamo la mia caverna. Quel tempo vuoto mi ha insegnato i miei limiti. Non sapevo farmi da mangiare e ho provato a cuocere un uovo. Non ho mai avuto la pazienza di leggere un libro, e l’ho fatto. La noia, quando contiene dei tentativi, diventa costruttiv­a».

Le ha fatto svariati regali questa pandemia.

«Il secondo più bello, dopo mio figlio, è il dono della consapevol­ezza. Che ho scoperto essere più potente della libertà. Per anni ho pensato che, se andavo a fare una corsa con dei ventenni, io e loro eravamo pari. E, se rimanevo indietro, morivo piuttosto che arrivare ultimo. Ora vado a correre coi miei coetanei, o sto a casa. Non ho più bisogno di rappresent­armi attraverso la forza, l’idea di non dover mai mollare. Ho capito che le gare non servono più

«Il rispetto è la lezione più grande che la natura mi ha dato. E l’idea che c’è un tempo per ogni cosa»

a niente, soprattutt­o se ne hai vinte tante. Ma anche se le hai perse. Ci pensa la natura, sempre lei, a fermarti».

La competizio­ne non ha senso nemmeno nella musica?

«Negli ultimi anni la musica è cambiata, in meglio. Ha un linguaggio completame­nto nuovo, è l’evoluzione della specie musicale, e ben venga».

Lei la sa fare questa nuova musica?

«Non lo so. Se voglio posso imitarla. Posso fare una musica non mia ed essere bravo a fingere che sia mia. Diventare grandi vuol dire anche diventare dei formidabil­i attori».

È una sfida che le interessa?

«La sfida della musica, al momento, è l’ultimo dei miei pensieri. C’è, è lì, la ascolto e la scrivo. Scrivo cose strane, o classiche o talmente improponib­ili che mi fanno sentire un cantante al primo singolo. E questa si chiama libertà, anzi consapevol­ezza. Più della musica mi manca il palco, quel sentirmi come se fossi appena nato. Un minuto prima di salire pensi che non ce la farai, che morirai affogato: succede ancora, dopo 30 anni di carriera. Nessuno se ne accorge perché rido e scherzo, sono bugiardo».

Sarà ancora più emozionant­e tornarci dopo tutto questo tempo.

«Non so nemmeno se sono ancora capace di salire su un palco, dovrei fare delle prove con delle figure di cartone al posto degli spettatori. È talmente tanto tempo che non ho contatto con il pubblico che quando la gente mi ferma per strada io penso: ci conosciamo?».

Non faccia il modesto: ha quasi un milione di follower su Instagram.

«Sì, lo so, quando guardo i social ricordo di essere popolare».

Ha mai paura di essere dimenticat­o?

«Non è una paura, è una consapevol­ezza. Se tu non ci sei la gente ti dimentica, e fa bene. La musica non mi fa più paura, un tempo sì, la tenevo sempre strettissi­ma, come un amore che sta scappando. Ma un amore che scappa devi lasciarlo andare, se ha voglia di te, poi torna».

Parka in cotone, Herno. Maglietta, 120% Lino.

È tutto un po’ crudele.

«Ma è la vita, e va accettata. Come la morte: se ci penso io ho paura, ma solo per quello che vedono gli occhi – le persone, le cose – e che non vedranno più. Ma dentro, invece, non ho nessuna paura. Ho paura invece della guerra, non per me, ma per questo figlio piccolo e inerme. Quando un padre guarda un figlio, vede tutti i figli del mondo, anche quelli che nascono e vivono sotto le bombe. Se non avessi avuto figli forse, per salvarmi, mi sarei chiuso nell’ignoranza. Ma sono un padre, non posso far finta di niente. Carlo mi ha legato al mondo e mi ha reso responsabi­le: devo fare qualcosa e, per quel che posso, lo farò».

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