METTERCI LA FACCIA
Nel museo allestito da Vanity Fair nel Metaverso (il lancio a breve, nei giorni della Biennale di Venezia) ci saranno anche le opere dell’italiano SKYGOLPE, tra i nomi più quotati nel panorama dell’arte digitale: ritratti senza volto con un’identità e una
Strentacinque e gli Nft fossero il rock, Skygolpe sarebbe tra le rockstar più celebrate in Italia e nel mondo. A anni è un nome notissimo nella scena dell’arte digitale, con una produzione che, secondo la piattaforma CryptoArt, supera i 6 milioni di dollari di valore. Si definisce «uneducated artist», ma ha una formazione e un’accesa passione da filosofo, e i modi gentili di chi è sicuro di sé.
Le sue opere, ha scritto il portale specializzato Nifty
Gateway, «usano abilmente la ritrattistica senza volto per fare riferimento all’umanità nel suo insieme», e accostano colate di colore, pennellate, sagome, fotografie ed effetti digitali con cui lo spettatore crea una connessione emotiva unica. Sembra che, pur non avendo un viso, le sue figure vivano di una loro precisa identità: Skygolpe è d’accordo? «Più che un’identità, direi che il mio modo di ritrarre conferisce loro un certo impatto. I colori e i pattern giocano un ruolo importante a livello espressivo,
ma mi piace pensare che l’identità venga poi decodificata da chi osserva l’opera. Il mio intento è sempre oggettivo, cerco di non stringermi in un campo contestuale, di lasciare il più ampio spazio possibile a chi si trova davanti all’opera», spiega l’artista a Vanity Fair.
Che cos’è l’identità, allora, per il maestro dell’arte digitale che privilegia l’oggettività? «Ho due definizioni: la prima la concepisce come niente altro che una convenzione sociale, mentre su un piano più personale direi che è il modo in cui vediamo noi stessi, la manifestazione esteriore di una nostra analisi interna».
È già stato oggetto di accostamenti importanti, questo artista italiano: il Museum of Contemporary Digital Art l’ha definito «il cripto-Modigliani». Ma chi sono gli artisti che più l’hanno ispirato e influenzato? «Quelli che mi hanno influenzato veramente, in realtà, con il mondo dell’arte hanno poco a che fare: su tutti citerei Fëdor Dostoevskij e Fabrizio De André. Il primo per avermi
insegnato la bellezza dell’esplorazione interiore: attraverso le descrizioni degli stati psicologici dei suoi personaggi ho affinato la mia ricerca artistica, che si interessa al lato invisibile della realtà; attraverso i testi delle canzoni del secondo ho invece appreso un certo realismo, e apprezzo come riusciva a trovare il bello, l’interessante in concetti che di norma finiscono persi nella banalità quotidiana. Ho passato lunghi periodi della mia vita ad ascoltare Faber tutto il giorno».
Skygolpe ha avuto modo di descrivere la sua produzione artistica come «irrazionale», e segnata da una dinamica che ha accostato a uno svuotamento di se stesso. È una concezione dell’arte come urgenza espressiva? «Tratto il processo creativo come una sorta di rito, dove in realtà le sessioni più intense sono frutto di lunghi preparativi, che comprendono anche la meditazione: quando arrivo a produrre, medio tra l’aspetto di ricerca meno “razionale” e una preparazione che parte da molto prima».
L’amore per la filosofia nelle opere di Skygolpe «pesa tantissimo. È il fulcro totale del mio lavoro, la maggiore fonte di ispirazione. Mi piace esplorare il segmento esistenzialista, quel mondo che sottrae sicurezza più che affermare dogmaticamente, il che mi permette di mettermi sempre in discussione. Mi definisco un realista esistenziale: all’interno dei miei soggetti mi piace mettere in contrasto la fragilità e l’eroismo umani».
Skygolpe ha iniziato a creare arte prima della rivoluzione degli Nft, ma poi ha saputo diventarne uno degli interpreti più brillanti e noti. Sembra doveroso chiedergli qual è la più grande novità portata dalla new wave, e quale quella che ha cambiato la sua esperienza personale. «Il cambio di passo oggettivo che hanno portato gli Nft risiede nel rapporto dell’artista col mercato, con la società e con i collezionisti», ci spiega, «unito a una nuova sovranità sul proprio lavoro». Da un punto di vista più artistico e soggettivo, invece, il rinnovamento è arrivato sul piano della considerazione delle proprie opere: «Prima degli Nft, l’arte digitale per me era sempre stata complementare al mio lavoro», dice, «poi ho iniziato a metterla sullo stesso piano di quella “fisica”. Ne è venuto fuori uno studio su questa terza dimensione ibrida, dove mi piace creare uno stato di confusione fra le altre due».
Nella collezione History of the Future, la star degli Nft rappresenta una società arrivata a un punto di non ritorno. Qual è questo punto di non ritorno, e che cosa l’ha generato? «Credo nei cicli della storia, nella ripetizione delle cose. All’interno dei cicli ci sono sempre poli positivi e poli negativi: noi abbiamo toccato il punto più alto dell’ultracapitalismo, del capitalismo anarchico, e i concetti e le cose di quest’epoca iniziano a suonare stantii, ci sono nuove tecnologie e nuovi sistemi che premono per dargli il cambio».
È tutto molto affascinante, ma siamo pronti ad accoglierlo? Se pensiamo ai giovani capi azienda e agli amanti delle criptovalute che animano la comunità internazionale dei non-fungible token, l’Italia non sembra il terreno migliore su cui seminare. «Essendo un Paese umanista, abbiamo sempre difficoltà ad abbracciare le nuove tecnologie rispetto a quanto avviene, per esempio, negli Stati Uniti. Culturalmente partiamo svantaggiati, e senza dubbio la classe dirigente è anagraficamente di età avanzata, anche se poi ci sono segnali in controtendenza: di recente sono stato ospite del Fai a Villa Panza, a Varese, di fronte a un parterre di decine di collezionisti d’arte tradizionale, anche abbastanza ‰gŽe, e mi sono stupito della curiosità e della quantità di domande pertinenti che mi sono state poste. Senza contare che l’Italia ha una delle community di cryptoartisti più attive e influenti del mondo».
C’è speranza, dunque: non ci resta che attendere il prossimo ciclo, guardando dentro di noi attraverso figure senza volto. ➡ TEMPO DI LETTURA: 6 MINUTI
«CHI MI HA INFLUENZATO DAVVERO? FËDOR DOSTOEVSKIJ E FABRIZIO DE ANDRÉ»
— Skygolpe