Enjoy your next bag!
Divertenti, ironiche, sorprendenti: le borse e gli accessori Rue Madam Paris per la primavera-estate 2022 hanno lo charme di uno stile multiforme, che unisce la pura tendenza a uno spirito “funny chic”
Da Verona con passione. Il brand Rue Madam Paris nasce nel 2015 dal talento creativo dei suoi due giovani designer, Davide e Mattia, che non finiscono di stupire con idee sempre nuove, in perfetto equilibrio fra la ricerca di uno stile décontracté e l’ambizione di suscitare nei soggetti giusti esclamazioni di stupore per i modelli più audaci. Le borse di Rue Madam Paris, Made in Italy al cento per cento, sono accessori che distinguono e si fanno riconoscere per la loro forte impronta “funny chic”: dai materiali ricercati alla gamma dei colori, dagli inserti in piume, spugna o Pvc alle grafiche che sublimano lo streetwear in arte figurativa. I luoghi iconici delle vacanze del jet set diventano scritte su shopping, cappellini, espadrillas, pochette, sandali in corda. I pattern animalier si alternano a “flag prints” che fanno pulsare secchielli, tote bag, clutch e micro bag. Il crochet si arricchisce di raffia e piumaggi glamour, che compongono una tela-puzzle di camouflage urbano senza pari. Dal mondo del pop a quello del viaggio come esperienza dell’anima, Rue Madam Paris è un atto di ribellione agli standard omologati, una scelta di stile controcorrente, eppure elegantissima.
Il linguaggio è fondamentale? «Per me sì, ma il punto è questo: se prima non c’è una vera trasformazione sociale, la lingua non potrà cambiare. È ovvio che l’Accademia della Crusca ti mandi a quel paese».
Si è mai considerato una lesbica?
«Sto con le donne da sempre, a 13 anni avevo il mio gruppetto rock & roll, andavamo in giro a lesbicheggiare. Ma a un certo punto mi sono chiesto: non è che magari invece sono una persona cisgender etero? Cosa sono?
Io non lo so! Oggi sono un trans non binario che ama Giulia. Punto».
Di diventare uomo a tutti gli effetti, non ci ha pensato mai?
«Ci penso costantemente, è la mia grande domanda. Ma ho deciso di costruirmi un passo alla volta, ho bisogno dei miei tempi, delle mie modalità».
Il prossimo passo: si opererà per rimuovere il seno.
«All’inizio non volevo. Sono la persona più bigotta che conosca, avevo paura di fare qualcosa di strano. Mi dicevano che ero molto bella, temevo di diventare un mostro».
Ha cambiato idea.
«Ho imparato a non farmi domande: so che nel presente, per stare bene con me stesso, devo trovare un comfort nel mio corpo. Magari tra 50 anni, quando non esisteranno più i generi, non sarà più necessario togliersi il seno: è un simbolo, e nel momento in cui lo desemantizziamo, ecco che sparisce».
Oggi si vede bello?
«No, mi vedo in costruzione».
Dopo l’operazione sarà più bello?
«Sì. E finalmente potrò andare al mare e prendere il sole».
Non potrà mai più allattare. «Non è una cosa alla quale pensi».
Ha deciso di operarsi in Belgio. Perché?
«In Italia il Servizio Sanitario Nazionale prevede solo la possibilità del passaggio da un genere all’altro; non veniamo riconosciuti come persone non binarie. Anche il microdosaggio ormonale, che mi consentirebbe – la faccio semplice – di cambiare le forme del mio corpo senza farmi crescere la barba o senza farmi stempiare, è difficile da ottenere. A me è stato detto: “Non vuole la barba? Eh, oneri e onori del testosterone!”. Vede, io voglio una cosa che la sanità pubblica, a oggi, non sa nemmeno che esista. E comunque, ammesso che uno voglia passare attraverso la trafila obbligatoria delle sedute psicologiche, delle diagnosi e dei tribunali per ottenere la transizione, per un’operazione al seno le liste d’attesa sono lunghissime».
Trafila che lei, comunque, non vuole fare.
«Esatto. Per i casi come il mio, in Italia le strutture private possono solo ridurre il seno, non asportarlo completamente.
Ho scelto il metodo più veloce e sicuro».
Non il più economico.
«Vero: mi costerà, in tutto, 11 mila euro. Per questo ho aperto un crowdfunding».
Ha paura dell’operazione?
«Sono così stanco che non vedo l’ora di stare a letto e farmi riverire e mangiare pancake. È una cosa che mi rende felice. Non ne posso più del binder che mi soffoca anche l’anima».
Devo fargliela, questa domanda: perché la turba il seno, e non la vagina?
«Questo è quello che pensa lei! (ride) Purtroppo ce l’ho qui davanti, sto sempre incurvata, pur di vederlo meno. Non mi appartiene, non è mio. Lo so, è difficile da spiegare. Il tema dei genitali ancora non riesco ad affrontarlo, e forse non lo farò nemmeno dopo. Credo abbia a che vedere con le dinamiche dell’intimità, col pensiero di stare in un corpo che siamo abituati a veder funzionare in un modo, e che invece vorremmo funzionasse in un altro».
In questo momento storico la riassegnazione del genere è ormai normalizzata, o quasi. Non altrettanto si può dire del riconoscimento dell’identità non binaria. Perché?
«Perché gli enby non occupano una casella precisa. Spiazzano».
Che cosa ci insegna la sua storia?
«Sarà una banalità fricchettona, ma è vero: dobbiamo ricordarci che siamo tutti diversi, anche se siamo tutti identici, fatti di carne e ossa».
Tutto quello che sta vivendo è una dimostrazione della sua forza o della sua fragilità?
«Non mi sono mai sentito così fragile nella mia vita quanto adesso: sto chiedendo per la prima volta aiuto, e nel farlo sto dando anche agli altri la possibilità di accompagnarmi. Questa fragilità è potentissima».
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«Questa transizione è una scoperta anche per me, una COSTRUZIONE che voglio fare un passo alla volta»