Storia della MIA TRIBÙ
Il secondo romanzo del cantautore Pacifico è il racconto, che diverte e commuove, di una bella famiglia stramba. La sua
Pia, infanzia poverissima in Campania, un’unica stanza da dividere in tanti fratelli e nessun padre, a sette anni perde la mamma e cresce in orfanotrofio con le suore. Il romanticismo è un lusso da borghesi e quando, più avanti negli anni, nella sua vita spunta un uomo, accetta la sua corte e lo sposa. Lui è Guido, istrionico e vitalissimo, un filo esibizionista. Insieme decidono, come molti all’inizio dei ’60, di emigrare al Nord, a Milano, in cerca di fortuna. Alla periferia della grande città un po’ «con il cuore in mano», un po’ ferocemente razzista verso i «terroni», nascono i due figli amatissimi: Gino ed Emma. Il primogenito diventerà un famoso cantautore, Pacifico, tra gli autori di canzoni più ricercati in Italia (firma, tra gli altri, per Gianna Nannini e Ornella Vanoni). Gino De Crescenzo, 58 anni, ha raccolto la storia di questa famiglia – stramba come da vicino lo sono tutte – in un bel libro di memorie
Io e la mia famiglia di barbari
(La nave di Teseo, pagg. 176, € 18).
Perché ora questo libro?
«Forse ho l’età di chi comincia a guardare le radici. L’innesco è arrivato da mia madre, che un pomeriggio mi aveva raccontato un aneddoto: sua mamma che, grazie a un biglietto regalato dai carabinieri, va all’Opera e si porta dietro lei, nascondendola sotto il cappotto. Ma a un certo punto alla piccola Pia scappa la pipì. Non ha scelta: la fa nel teatro. Dopo questo racconto, mia madre mi ha chiesto: “Scrivila, perché così rimane”. E poi la scena si è popolata di facce e fantasmi».
Come suo padre Guido, un personaggio incredibile.
«Aveva il guizzo napoletano. Sul letto di morte l’ultima burla: mi disse che sentiva di essere arrivato. Io gli chiesi: “Sei sicuro?”. E lui fece le corna, come Totò».
Sua madre Pia è il pilastro della famiglia.
«Per tanti anni è stata in pericolo di vita. Ma è sempre pazzesca. Una volta, dopo l’ennesimo intervento interminabile la vidi in ospedale con la faccia livida. Ero ragazzino, allibito. Lei disse: “Non fare quella faccia, fossero questi i problemi della vita... Capito? Non sono questi i problemi della vita”».
Un insegnamento per lei?
«Credo che questa forza, questo senso di dire: “Ma sì, ce la facciamo, tutto si risolve”, me lo abbiano passato».
Imbarazzi per questa famiglia colorata?
«A 16 anni mi vergognavo delle patacche sui vestiti di mio padre, della sua incredibile estroversione, delle nuvole di fritto che aleggiavano in casa. Ma già a 20 guardavo a tutto questo con affetto».
In una famiglia che aveva il valore della fatica del lavoro e viveva di cambiali, lei come ha fatto a diventare musicista?
«La prima chitarra me la comprò mio padre, con le cambiali. Dopo la laurea mi chiamò la Banca d’Italia, feci tre colloqui e a ognuno andavo sempre più strafottente perché non volevo essere assunto. Invece l’assunzione me la offrirono. Io rifiutai. Fu una tragedia per mesi. Ancora oggi mia madre a volte si lascia andare al rimpianto: “Eh, certo che quella volta...”».
Poi però l’hanno vista persino a Sanremo.
«Mio padre me lo ritrovavo sotto il palco a concerti improbabili. Un giorno ho scoperto un quaderno in cui aveva trascritto tutte le canzoni del mio primo disco. Non poteva incoraggiarmi apertamente, ma segretamente mi sosteneva».