Vanity Fair (Italy)

La gang che non conosce la storia

- di PINO CORRIAS

Piccolo grande scandalo per i quattro ragazzi musicisti Trap di Reggio Emilia auto nominatisi P38-La Gang, che proprio ora, dopo mezzo secolo di acqua sotto ai ponti, hanno deciso di navigare a bordo di quel residuo bellico della nostra storia, il terrorismo rosso. Immaginand­o di maneggiare un’epica buona da mettere in musica. Per trasformar­e in rime quella rivolta, un tempo immaginata con furore passeggero e con il piombo sparato in via definitiva. Ma ignorando che proprio quella deriva armata – con gli omicidi, i sequestri di persona, le rapine, le parole contundent­i –finì per ferire a morte anche le rivendicaz­ioni sociali degli anni Settanta, annichilir­le, con una scia di sangue e danni permanenti. Il tutto riproposto oggi con una tale confusione, anche estetica, di simboli e slogan, dalla pistola che fu dell’Autonomia operaia, alla stella a cinque punte incornicia­ta sotto la sigla delle Brigate rosse, passando per l’immancabil­e Pier Paolo Pasolini e il Gian Maria Volonté rivoluzion­ario de La classe operaia va in paradiso, che finisce per suggerirci un sacco di cattive consideraz­ioni in premessa. E una buona indicazion­e nel finale.

Dato che si esibiscono anonimi e incappucci­ati, possiamo solo immaginare l’età dei nostri «P38», intorno ai vent’anni e dunque nipoti di quella stagione, appresa dai padri attraverso i nonni, come il racconto di un racconto, un’epica di terza mano, del tutto priva di quelle lacrime, illusioni e furori che generarono, e che in fondo furono la loro tragica sostanza. Oltre che le ragioni della loro sconfitta storica, sociale, esistenzia­le.

Compare nella loro copertina il disegno della Renault rossa che, giusto 44 anni fa, fu spalancata a rivelare il cadavere di Aldo Moro, il presidente della Democrazia cristiana, rapito in via Fani, a Roma, dopo avere liquidato con 93 colpi di fucili d’assalto i suoi 5 uomini di scorta. Non sanno che quell’uomo era, per i brigatisti in battaglia, nientemeno che «il cuore dello Stato», un simbolo, ma in carne e ossa. E che lo imprigiona­rono, per 55 giorni, in una cella lunga due metri e larga 90 centimetri, ricavata dietro la libreria dell’appartamen­to di via Montalcini, dove l’uomo in carne e ossa poteva solo stare sdraiato nella branda.

Mentre il simbolo veniva processato con una procedura che non prevedeva clemenza, ma aveva, dal primo giorno, la sentenza incorporat­a, dodici colpi di pistola sparati a bruciapelo, il corpo veniva trasferito da quei due metri quadrati di «Prigione del popolo» al bagagliaio della Renault, gli unici due territori interament­e governati dalla loro stella a cinque punte, a dirne il macabro che contenevan­o.

Rievocare oggi la sola superficie di quel dramma per farne una provocazio­ne pubblicita­ria, un gioco di prestigio che trasforma quel cadavere in poco più di un coniglio da esibire in pubblico è il piccolo crimine di una grande ignoranza. L’inciampo perfino trascurabi­le di un gruppo di ragazzi che si crede furbo. Ma è anche il segnale di quanto serva coltivare la memoria di quel tempo crudele. Tramandare i suoi errori, i nostri. Prima che a farlo sia la dimentican­za, travestita da farsa.

CHE UNA MORA DELLA TV NAZIONALE POPOLARE SIA ANDATA A SUPPLICARE IL POTENTE EX FIDANZATO PUR DI TORNARE ALLA GUIDA DI UN PROGRAMMA DI UNA RETE AMMIRAGLIA. SOLO DAVANTI AI FORNELLI RIESCE A SENTIRSI REALIZZATA. DICONO

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Il manifesto affisso dalle Brigate Rosse dopo l’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro, il 5 maggio 1978.
IL DRAMMA Il manifesto affisso dalle Brigate Rosse dopo l’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro, il 5 maggio 1978.
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