Un fisco capovolto, amico dei più ricchi
Meno tasse per tutti» – come oggi promette Giorgia Meloni nella sua delega fiscale – è una fanfaluca che abbiamo già sentito. Più o meno 30 anni fa, primo festival elettorale di Silvio Berlusconi. Da allora le tasse hanno fatto il contrario. Ogni governo ha promesso il suo miracolo, finito nella fornace del debito pubblico sempre in crescita e della super maxi extra strong evasione fiscale di massa, calcolata in almeno 100 miliardi di euro l’anno. Un solo italiano ogni 100 dichiara di guadagnare più di 100 mila euro l’anno, altri tre su 100 si fermano a 70 mila, tutti gli altri sotto, molto al di sotto, 21 mila euro di media, nonostante guidino 40 milioni di automobili e tormentino il prossimo con
80 milioni di smartphone, 1,3 a testa, neonati compresi.
Ma questa volta la riforma annunciata è pure peggio delle altre. Promette un fisco amico di tutti, specialmente dei più ricchi. Ai quali annuncia addirittura la Flat Tax, la tassa piatta, il 15 per cento per tutti in prospettiva, bye bye alla progressività dei contributi, che per inciso è una norma costituzionale a garanzia dell’equità fiscale: più guadagni più paghi, e viceversa.
È un fisco capovolto, quello che immaginano i nuovi titolari dell’esecutivo. Comprensivo con gli insolventi. Disponibile a rate, revisioni, condoni. Persino al colpo di spugna sui reati fiscali. Il tutto pensato come se fosse il fisco in debito con i cittadini e non il contrario. Un fisco che chiede scusa di esistere.
Pensiero coerente alla Destra estrema, la Destra populista, che da sempre considera le tasse un furto di Stato, una ingerenza alle libere dinamiche sociali che si autoregolano, grazie alle leggi di mercato, alla intraprendenza dei singoli. Per i quali pagare le tasse non è mai un dovere («un bellissimo dovere», direbbe il compianto Tommaso Padoa-schioppa), semmai un sopruso o al massimo una concessione.
Per questo è tanto in voga l’orrenda frase «mettere le mani nelle tasche degli italiani», come se fosse quello il crimine compiuto, l’illegittima prepotenza dei governi contro la virtù dei cittadini. I quali, tuttavia, pretendono da quello stesso Stato che qualcuno non finanzia, la buona amministrazione di scuola, sanità, trasporti, sicurezza, cura del territorio e del clima. Cioè esattamente tutte le condizioni del buon vivere comune, che proprio dalle regole dello Stato fiscale derivano. E che hanno fatto del Welfare la maggiore conquista delle società europee da metà del Novecento, assai più egualitarie di quella americana, dove essere poveri è prima di tutto una colpa da scontare e non una condizione sociale da affrontare, circoscrivere, risolvere.
Nessun cedimento ai colpevoli di povertà, niente salario minimo, niente reddito di cittadinanza, come nel resto d’europa. Guai a tassare gli extra profitti delle maggiori aziende energetiche o farmaceutiche. Guai a ogni idea di patrimoniale. E invece sì alla tassa piatta. Adottata in otto Paesi come la Russia di Putin, l’ungheria di Orbán, la Bielorussia di Lukashenko. Niente male come Paesi guida.