C’è un’età per tutto
Per rifiutare le scene di sesso. Per oziare senza sensi di colpa. Per svelare come vengono scelti gli attori oggi. A 66 anni, LAURA MORANTE si è conquistata il diritto di ignorare i gossip e di dire la verità, anche quando è scomoda
Laura Morante è distesa sul letto della sua casa romana, con i folti capelli neri a galla come alghe sul cuscino. È rientrata da Losanna dove la Cineteca svizzera ha selezionato il suo secondo film da regista, Assolo, per una rassegna di pellicole al femminile: «Quando è uscito me lo sono goduto poco perché ero troppo tesa, ma ora mi è piaciuto e gli attori sono straordinari», racconta, ammettendo d’essere un’attrice che non ama molto rivedersi, e che esistono pellicole in carriera che s’è perduta totalmente: «Di certo una in Portogallo, di cui non ho saputo mai nulla», dice, con quel suo modo che è sempre denso e lieve, spesso comico nei racconti e negli accenti.
Come divertente è il suo personaggio nella seconda stagione di Christian (dal 24 marzo), la serie Sky Original su un picchiatore della malavita romana che riceve le stimmate e diventa santone e guaritore. Qui, Morante debutta nei panni di Nera, una creatura forse umana o forse soprannaturale che affianca un postulatore del Vaticano (Claudio Santamaria) in cerca della verità. Un progetto acciuffato al volo incastrando mille impegni: la seconda stagione di A casa tutti bene di Gabriele Muccino, il ruolo da protagonista nel film di Roberto Faenza su Alda Merini, e una serie in Francia, Alphonse, girata da Nicolas Bedos al fianco di Charlotte Gainsbourg.
Ex danzatrice iniziata alla recitazione da Carmelo Bene e Giuseppe Bertolucci, nipote di Elsa Morante e Alberto Moravia, ha girato oltre cento film ma è stata premiata poco, meno in Italia e più in Francia, dove ha vissuto dieci anni ed è amatissima. Ha tre figli: Eugenia Costantini e Agnese Claisse, attrici. E Stepan, adottato durante il terzo matrimonio con l’architetto Francesco Giammatteo, che mentre
«Quando ero sola e con due figli a carico ho fatto film che non mi interessavano, ma non mi sento in colpa: se lo fai PER VIVERE è legittimo»
parliamo entra in camera annunciando un sonnellino e chiedendo alla mamma di svegliarlo alle cinque meno un quarto. «Certo, amore mio», le risponde la diva 66enne. Che sospira: «Oggi il programma è non fare niente. Oggi sto con lui». Perché fa ancora una vita così frenetica? «Per natura, frenetica lo sono poco e il tempo per non fare niente non mi basta mai. È stato un periodo intenso: ho lavorato più del solito, e quando lavoro so essere stakanovista, anche 13 ore di fila senza fermarmi. Ma non sono il genere di attrice che quando sta ferma si deprime. Io mi deprimo solo quando finisco senza soldi». Le capita spesso? «Ora no, perché sono sposata da vent’anni con un uomo con cui condivido tutto, ma tendenzialmente non so fare calcoli e sono cicala. Ho aperto il mio primo conto in banca tardissimo e nella vita l’indigenza l’ho sperimentata, con due figlie a carico per giunta. A quel punto, per sopravvivere, facevo film che non mi interessavano: una carriera fatta di molte deviazioni». Con sensi di colpa annessi. «Nessuno. Mi sentirei in colpa se facessi una cosa che non mi piace solo per denaro. Ma se lo fai per vivere, è legittimo. In generale, conservo il fatalismo di mia madre che, di fronte alle difficoltà, ripeteva: “Tranquilla, qualche santo ci penserà”». Christian però non fa parte dei lavori d’emergenza, giusto? «Certo che no: la prima stagione mi aveva divertito. E poi ci recita Silvia DA’ mico, che interpreta mia figlia in A casa tutti bene, quindi ero doppiamente contenta». È stata definita una supernatural crime dramedy. Riuscirebbe a spiegarmi che cosa significa? «Santo cielo: non ho capito cosa ha detto e mi prende totalmente in contropiede. Diciamo che la sceneggiatura originale è, a livello di genere cinematografico, di difficile collocazione». Che rapporto ha con la religione? «Mia madre pregava tutte le sere, mentre papà era un ateo militante che quando mia sorella volle fare la comunione le scrisse: “Mi stai arrecando un immenso dolore”. Io non credo. Ma resto figlia di questa contraddizione».
Il diavolo, nel buio, le fa paura? «Ne ho avuto terrore fino ai 15 anni, dovevo dormire con la luce accesa, poi non più. Il diavolo non l’ho mai incontrato ma penso che si celi dappertutto, perché la vita è anche fatta di cose che ti feriscono e di gente capace di fare del male. Spesso per invidia: un sentimento perverso che muove il mondo». Il suo vizio capitale qual è? «L’ira. Ma in dosi omeopatiche». Che cosa invidia a chi ha fede? «I riti. E il fatto di avere luoghi di silenzio, le chiese, dove vado alla disperata ricerca di un po’ di raccoglimento. Anche perché mi hanno levato l’ultimo spazio di pace che esisteva: le pinacoteche. L’altro giorno sono andata a vedere una mostra a Roma, alla biglietteria ho chiesto un orario in cui non ci fossero gruppi né eventi, e mi hanno risposto così: “Signora, è impossibile”. Nelle spiagge ci sono i deejay. Nelle vie commerciali esce musica da ogni vetrina. Il diritto a stare senza suono è negato». In compenso, lei appare una parlatrice tenace. «Sono intermittente. Se c’è una tavolata parlo il minimo indispensabile, mentre se si è in due o tre amo conversare. In questo senso vivere all’estero è stata una salvezza: mi invitavano alle cene e non capivo nulla, così potevo osservare le persone. Perché difficilmente la gente esprime ciò che è con le parole: al contrario, lo fa “nonostante” le parole. E chi nell’eloquio può sembrare disinvolto magari tradisce nei gesti un’insicurezza, e mi piace registrarla. Insomma: lasciatemi guardare ma non chiedetemi di intervenire pure quando non capisco una parola. Anzi, se non capisco, tanto meglio». Lei è divertente, lo sa? «Infatti scrivo commedie: amare, ma pur sempre commedie. E me lo disse anche Mario Monicelli la prima volta che ci incontrammo: “Ho inventato Monica Vitti e Vittorio Gassman, quindi fidati, smettila di fare drammi e diventa attrice comica”». Non gli ha dato retta. «Come regista sì: per un ruolo drammatico, non sceglierei mai un attore senza umorismo». È mai finita nel dimenticatoio? «Periodi in cui non lavoravo ci sono stati. Occorre essere solidi, sennò questo mestiere può
rivelarsi crudele. Una volta Marcello Mastroianni mi raccontò del momento in cui non lo voleva nessuno, confidandomi che la sua compagna, Catherine Deneuve, era costretta a fare il giro dei produttori per implorarli di dargli un ruolo. Un periodo amaro di cui ancora portava i segni. Del resto, il mestiere dell’attore è uno dei meno meritocratici che esistano». Anche oggi? «Peggio: il fenomeno è eclatante. Ho fatto riunioni di produzione per scegliere il cast dei miei film di fronte a persone che, appena nominavo un interprete, andavano a vedere quanti follower avesse sui social. E infatti si girano film fatti solo di primi piani dove puoi mettere a recitare anche un cane, che tanto non fa differenza. Il fenomeno sta assumendo proporzioni spaventose». La domanda è permessa solo perché ha fatto Boris, film che ha reso l’espressione di culto: lei, «cagna», si è vista mai? «Così tante volte che farei prima a citarle i casi in cui mi è parso di essere brava. Il mio amico Gianni Amelio, poco tempo fa, mi ha detto: “Non farti più dirigere da nessuno, sei meglio quando fai da sola”». C’è stato un periodo in cui i produttori non la volevano? «Successe per Bianca: Achille Manzotti, che faceva il cinema commerciale, disse a Nanni Moretti: “Prendi chiunque ma non lei”. Idem in Francia, dove un regista si ammalò per il dolore di non potermi scritturare. La stessa cosa accadde con John Malkovich, che dovette dirmi che la produzione aveva messo il veto sia su di me che su Javier Bardem. Un anno dopo mi riconvocò per fare il provino: riuscimmo a convincerli. Ma per sicurezza fece scrivere il mio nome sul suo contratto». Ha mai fatto scandalo, con una pellicola? «Forse con La mirada del otro: un amico americano mi disse che negli Usa ero stata definita “attrice porno”. Ma in realtà la storia è tutt’altro che pornografica, tanto che una vera scena di sesso non c’è e anche le sequenze in cui lei, diciamo così, si autoesplora, sono astratte. Per fare un raffronto, il film che ho fatto con Bellocchio sull’amore tra Dino Campana e Sibilla Aleramo era molto più spinto». La cosa incredibile è che le sue sequenze di La mirada sui siti porno si trovano davvero. «Non mi scandalizzo. Per me, da ex ballerina, il corpo è sempre stato unicamente uno strumento. Mi facevo la doccia con i danzatori uomini e a teatro ho recitato nuda tante volte: l’idea di pronunciare una brutta battuta mi ha sempre intimidito di più dell’idea di spogliarmi». E adesso? «Penso di potermi permettere il lusso di non girare scene d’amore. Quando Muccino, per la serie, mi ha annunciato di averne scritta una per me, gli ho chiesto se cortesemente poteva dare al personaggio una storia affettiva con un cane, piuttosto che con un uomo. E lui mi ha ascoltata». Si tratta di androfobia? «No. Si tratta del semplice fatto che c’è un’età per tutto». Però guardi Tim Burton e Monica Bellucci, che belli. «Mi spiace, ma non so di che film parla». Non è un film, è la realtà. «Ops, mi scusi. Il gossip, così come la conversazione mondana, non sono mai stati il mio forte».
Hair Roberto Dõantonio. ➡ TEMPO DI LETTURA: 9 MINUTI