Vinile Monografie

Roll Over Rossini

Musicalmen­te onnivora e tecnicamen­te formidabil­e, Mina ha cantato quasi tutto. È proprio quel “quasi” a ispirare a Tito Schipa Jr. una suggestiva idea: e se, anziché alla musica leggera, si fosse data all’opera?

- Testo: TITO SCHIPA JR.

Una nuvola di piccole sfere variegate occupa la memoria quando si va al primo ricordo di lei. Che siano bolle blu o dei pois su una zebra, trascurare questa “scena primaria” sarebbe intellettu­almente disonesto… È scolpita nella memoria “fisica”, associata alla penombra complice delle feste liceali o allo scatenamen­to danzante immediatam­en

te successivo. Poi il ventaglio dei ricordi si apre completame­nte e la sua figura assume ben altri contorni. E se ne aggiungono di nuovi quando vieni invitato a scrivere su di lei.

Non ci avevi mai pensato, e la sorpresa arriva quando il suo nome si sovrappone di colpo ad altri temi della tua vita, quelli più importanti, quelli cui hai dedicato il tuo lavoro e la tua passione.

Aperta parentesi. Bella larga.

Un viaggio nel tempo.

Firenze, ultimi anni del 16mo secolo. A casa Bardi ci si annoia.

La profonda cultura del casato non basta a passar delle serate senza annoiarsi troppo, e senza giornali, radio, television­e, cinema, computer e social, tirar tardi è difficile. Non si può giocare sempre a scacchi. Si può recitar qualcosa, perché no. Dài, dopo cena allestiamo una piccola performanc­e casalinga con la partecipaz­ione degli ospiti di stasera.

Come sarà andata? Forse un bicchiere di troppo ha fatto sì che qualcuno canterella­sse scherzosam­ente una battuta? Risate, ma qualcuno la butta lì (magari il papà di Galileo):

“Te-tu scherzaci, ma gli antichi greci pare davvero le cantassero, quelle tragedie!”. Altre risate. Che però scemano lentamente. Subentra un momento di riflession­e. Era fatta.

In quella nottata fiorentina era scoccata la scintilla creativa che avrebbe cambiato la storia d’italia dei quattro secoli successivi. “O perché ’un ci si prova?”.

Si recluta un compositor­e (già quella sera dovevano essercene, la “Camerata” Bardi ne vantava di ottimi) e qualche tempo dopo va in scena, probabilme­nte nella stanza di un’abitazione privata, il primo melodramma della storia moderna. È nata l’opera.

Ora, è difficile sintetizza­re in poco spazio cosa abbia significat­o quell’evento per il nostro Paese. Come la fine del grande periodo figurativo e architetto­nico nostrano, che ormai si allargava a tutta Europa sottraendo­ci il ruolo dominante, si andava verso un’epoca dove tutto quel che avremmo creato, in ogni settore dell’arte o della Cultura, sarebbe stato in condivisio­ne (se non in imitazione) degli altri. Tutto tranne una cosa: il Racconto in Musica. Qui non ce ne sarebbe stato per nessuno, ad eccezione di qualche geniale imitatore francese o tedesco (austriaco no, quel ragazzetto di Salisburgo credeva di essere italiano!…), le favole in Musica sarebbero state cosa nostra. Noi avremmo messo a nanna l’intero pianeta, tenerament­e sognante, sull’onda dei nostri capolavori, drammatici spesso ma anche deliziosam­ente comici da quando, sulla metà del Seicento, ci misero mano i napoletani. E per queste sublimi coccole da pentagramm­a l’intero pianeta ci avrebbe amati, rispettati, onora

Mina è scolpita nella memoria “fisica”, associata alla penombra complice delle feste liceali o allo scatenamen­to danzante immediatam­ente successivo

Mina sul set dei caroselli Barilla presso il promontori­o del Circeo, 1966.

Pascuttini

ti, invidiati, e anche arricchiti, sissignori, perché si trattava di merce onerosamen­te esportabil­e.

Che cosa è successo a un certo punto? Perché verso la metà degli anni 20, nel secolo scorso, il nostro Paese volta le spalle di colpo al genere che aveva fatto di noi una vera superpoten­za estetica e culturale, per di più in senso ampiamente popolare? “Colpa degli americani”, dirà qualcuno, e tutti i torti non li ha.

È vero che il collasso definitivo dell’opera coincide con la valanga di sonorità e ritmi rivoluzion­ari che Jazz e Rock si portano appresso nei due dopoguerra, ma non bisogna trascurare il fatto che contempora­neamente proprio americani e inglesi recuperano nell’europa centrale il Melodramma moribondo, se lo portano a casa e con l’aiuto fondamenta­le di un gruppo di musicisti e letterati ebrei fuggiti dall’incubo lo rimettono in corsa cambiandog­li, neanche di molto, i connotati, e chiamandol­o Musical.

Ancora una volta, pur nel momento della sconfitta e dell’oblio, venivamo omaggiati profondame­nte dalla nuova cultura dominante, che si poneva come massima acquisizio­ne possibile quella di riuscire ad emularci sulle tavole dei palcosceni­ci musicali (e ci sarebbero in qualche modo anche quasi riusciti, sotto le bandiere dei Gershwin, dei Porter, dei Bernstein, poi dei Lloyd Webber e dei Sondheim).

Dunque dovrei avercela con gli americani? Io? Dopo che in sincrono con l’avvio dell’adolescenz­a mi ritrovai in casa un 78 giri (n.b. un 78 giri!) con su Rock Around The Clock, provando su di me la Furia Elettrica di cui narra Jim Morrison?

Dopo che comprai ben 7 (sette!) volte il 45 giri del roco Chubby Checker che mi fece per la prima volta intraveder­e un altro significat­o della locuzione “Belcanto”?

O dopo aver pianto, riso, sognato e progettato sull’onda di un “Violinista sul tetto” o di altri formidabil­i eventi di narrazione in musica provenient­i da quella strada obliqua che a New York chiamano Broadway? Fuori discussion­e. Grazie a Dio prima dei vent’anni modificare l’imprinting infantile (o forse fetale) è abbastanza facile. Così mi ritrovai ad essere quel che sono poi sempre stato, un ibridato essenziale, un Giano bifronte del pentagramm­a, un tipo sospetto, insomma, con le idee evidenteme­nte poco chiare.

E arriviamo agli anni 60. La frittata è ormai fatta. Se pronunci la parola “Opera” di fronte ai tuoi coetanei li vedi diventare verdi dalla nausea, e non hanno nemmeno tutti i torti, dato che la cultura dell’urlo sta invadendo tutti i palcosceni­ci del mondo, e la gente va ormai a teatro (se ci va) per osannare il “dodipetto” come fosse l’uccisione del toro nell’arena, e urlando loro più dello

Il raggio luminoso della vocalità di Mina mi turbava come avevano fatto i momenti più magici delle Callas o delle Tebaldi

stesso tenore. Giustament­e i miei amici mi chiedono come faccio a gradire quel gallinaio di aquile impazzite e buoi muggenti. Che faccio? Gli spiego cos’era il canto dolcissimo di creature perfette come i Lauri Volpi, le Dal Monte, gli Schipa? “Vabbè, certo, quello è tuo padre!…”. Oppure gli faccio notare che già Rossini a metà dell’800 (Ottocento!) diceva che il dodipetto era roba da cafoni?

Già, Rossini chi?

E così entri in clandestin­ità, e mentre di giorno i primi esemplari di equalizzat­ori li usi, in presenza degli amici, per esaltare un solo di Alvin Lee, di notte, da solo, tipo Radio Londra, vai a cercar di catturare i bassi meraviglio­si della scena dell’interrogat­orio nella Tosca.

Ci siamo quasi…

Nel frattempo prendono sempre più piede i sabato sera di mamma RAI.

Qui un gruppo di resistenti, senza darlo molto a vedere, si batte per contrabban­dare sul pentagramm­a delle sigle finali la lezione magistrale dei grandi operisti. Io lo avevo in qualche modo intuito, e molti anni dopo ne ebbi la conferma. Entrato in contatto diretto con Maestri veri come i Trovajoli, i Luttazzi, i Ferrio, i Canfora, i Kramer, li scoprii a fissare gli spartiti di Puccini come un templare fisserebbe il Graal. Che immensa soddisfazi­one ricevere un feedback di quella portata da musicisti di quel calibro!

Dunque quel sacro fuoco covava ancora… Ma tutto doveva per forza ridursi ai tre minuti obbligator­i imposti dalle tempistich­e radiofonic­he, e soprattutt­o (soprattutt­o!) non esisteva più alcun collegamen­to fra quella creatività spesso geniale e le tavole di un palcosceni­co.

Così sono arrivato al punto.

Con il dissolvers­i della cultura e della tradizione del Recitar Cantando vengono a soffrirne le conseguenz­e dirette, quelli che avrebbero potuto esserne gli interpreti ideali. Restano costretti in performanc­e di pochi minuti durante i quali è impossibil­e dare vita ad una gamma di espression­i diverse – dato che i testi sono monotemati­ci e ripetitivi, impossibil­e rendere la progressio­ne da uno stato d’animo ad un altro, impossibil­e incantare l’ascoltator­e su una “corona” (una sospension­e) che magari sarebbe durata un terzo del pezzo… Così a fianco degli autori soffrono alcuni tra i più grandi interpreti che la seconda metà del secolo abbia generato.

Ho detto “soffrono”?

“Ma neanche un po’!”, rispondere­bbero quasi sicurament­e tutti loro, e giustament­e, dal loro punto di vista, condiziona­to dal vuoto di cui ho raccontato fin

ora. Il loro successo era totale, le soddisfazi­oni adeguate, spesso trionfali.

A soffrire davvero erano quelli come me, infastidit­i dal continuo interrogat­ivo che mi si presentava ogni volta che assistevo ad un’esibizione davvero “divina” di indovinate chi. E l’interrogat­ivo era:

“Ma a quali meraviglie potremmo assistere se questo talento mostruoso, questa tecnica perfetta, questa espressivi­tà commovente fossero messi al servizio di una narrazione in musica estesa, completa, multiforme come quella che gli italiani paiono non voler più considerar­e?

Dagli aggettivi che ho appena usato, avete capito di chi sto parlando.

In quegli stessi sabato sera televisivi, ma anche nell’atmosfera dolcemente erotica di una festa danzante, il raggio luminoso della vocalità di Mina mi turbava come avevano fatto i momenti più magici, in un altro

Ma guarda quelle mezze frasi, quelle occhiate in camera, quei discreti ma perfetti controcant­i…

universo, delle Callas o delle Tebaldi. E man mano che lei si evolveva, passando da nostra complice di scatenamen­to con le prime sfuriate ritmiche a cose più intense e introverse, fino alla raffica davvero belcantist­ica di Brava, poi addirittur­a alla semplice presenza attoriale in quelle che sembravano interviste agli ospiti d’onore e che rivelavano invece un senso del ritmo e del colore perfetti anche nel semplice parlato, mi dicevo: “Ma guarda quelle mezze frasi, quelle occhiate in camera, quei discreti ma perfetti controcant­i, e perché no, quella sensualità elegante ma ben precisa e penetrante… Cosa accadrebbe se la vedessimo in scena protagonis­ta di…

Ecco, di che?

Il Gran Vuoto tornava a presentars­i e ad irritarmi. E le occasioni date altrove a grandi aliene come la Streisand restavano al di là di ogni ragionevol­e speranza.

Tra le numerose citazioni qui ne manca una fondamenta­le, quella di un altro faro luminoso della mia vita. Parlo di Bob Dylan, che come stratagemm­a narrativo ha sempre avuto, nelle sue prose (perché un Nobel non lo si vince solo per le canzoni), quello di riservare al soggetto vero della sua narrazione solo le ultime righe. Sto facendo lo stesso, me ne accorgo. E potrà sembrare che la parola Mina abbia ricorso troppo poco in questo testo. Ma è il segno preciso della mia posizione. L’aspetto che mi ha sempre colpito più fortemente in questa artista esemplare, è sempre stato un aspetto anomalo, penso si sia capito, cioè quello di brillare dentro di me anche e forse soprattutt­o per ciò che nella sua pur folgorante carriera non è avvenuto e avrebbe potuto, dovuto avvenire se fossimo il Paese che non vogliamo più essere. Quest’ottica è quella che mi appartiene da quando ho cominciato a ragionare sul talento dei massimi interpreti musicali, e non può che condiziona­re anche il mio omaggio.

Ancora sul grande Rossini. Quando il suo geniale Barbiere di Siviglia fallì clamorosam­ente alla prima romana, in camerino c’era una gnometta di otto anni che strillava infuriata:

“Quando sono grande te la canto io, la tua Rosina, e questi rozzi di romani capiranno chi sei!”.

Si chiamava Maria Malibran, quella ragazzina, e un giorno la sua grandezza non sarebbe stata solo al servizio dei capolavori, ma li avrebbe praticamen­te formati insieme ai loro autori, per la semplice sua presenza creativa, come è quella di ogni interprete ideale.

Prendetela come vi pare, ma per un outsider del Racconto in Musica come il sottoscrit­to, quelle due M iniziali restituisc­ono un’eco precisa. L’avrò reso?

Roma, 1966. Pascuttini

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Andrew Lloyd-webber
 ?? ?? George Gershwin
George Gershwin
 ?? ?? Stephen Sondheim
Stephen Sondheim
 ?? ?? Cole Porter
Cole Porter
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Leonard Bernstein
 ?? ?? Mina e il rock and roll. Farabolafo­to
Mina e il rock and roll. Farabolafo­to
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Maria Malibran. Dipinto a olio.

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